Quella del 1 Maggio, ormai da qualche anno, è una festa dimezzata, visto che il lavoro, che dovrebbe essere un diritto per tutti, così come recita la Costituzione, sta divenendo sempre più merce rara.
Infatti, il nostro Paese sta vivendo un’involuzione invero drammatica, se si pensa che il tasso di disoccupazione e quello di inoccupazione sono ai livelli di una realtà da secondo mondo industrializzato.
Dopo la fine del Novecento, i grossi flussi del capitalismo mondiale hanno, ineluttabilmente, determinato il trasferimento fuori dall’Europa dei luoghi della produzione, per cui il sistema produttivo si è delocalizzato in Asia, in America latina, in alcune aree africane, dove ovviamente i costi della manodopera sono, di gran lunga, inferiori a quelli imposti sul suolo del vecchio continente dalle regole contrattuali odierne.
Si tratta, dunque, di un processo almeno ventennale, a cui se ne accompagna un altro, non meno preoccupante: l’allungamento della vita lavorativa di chi è costretto a dover allontanare, sempre più, il momento del proprio pensionamento, perché le casse dello Stato non consentono regimi previdenziali ben più generosi nei riguardi di chi ha avuto la fortuna di svolgere un lavoro non in nero.
Anche la Sinistra italiana, alla fine degli anni Novanta, ha commesso il grave errore di innamorarsi del concetto di precarietà, per cui, durante gli anni della cosiddetta Seconda Repubblica, abbiamo ascoltato leaders di spessore nazionale, che hanno esaltato la possibilità che l’essere umano possa cambiare, almeno, un paio di lavori nel corso della sua carriera.
Quei leaders non si sono resi conto che, così, aprivano un orizzonte, che oggi è avvertito in modo sempre più drammatico, perché, se la precarizzazione del lavoro ha consentito a qualche giovane di poter ancora lavorare, è anche vero che, così facendo, si sono persi dei diritti, che – nel corso del secolo scorso – sono stati conseguiti grazie alle lotte del mondo sindacale.
Oggi, quella precarietà è divenuta, meramente, l’anticamera della disoccupazione, visto che, finanche, il lavoro precario, in taluni casi, è divenuto una chimera, che molti agognerebbero a fronte di una condizione di vita, che diventa obiettivamente sempre più pesante.
Cosa fare?
Il Governo, lo scorso anno, ha varato il Jobs Act, i cui esiti non sono stati brillanti, dal momento che, certamente, non si può considerare “lavoro” la precarizzazione – di fatto – permanente del proprio status giuridico di lavoratore.
Eppure, dal lavoro dipende la dignità delle persone: un cittadino, che non lavora, perde la propria autostima, che è un patrimonio culturale di valore inestimabile, perché da questa discende la percezione della posizione che ciascuno ha, di sé, nel mondo.
Il Novecento, dunque, è stato il secolo del lavoro e dei diritti dei lavoratori; il XXI secolo è, invece, finora quello della negazione di ciò che è stato costruito nei decenni precedenti.
Per tali motivi, festeggeremo un 1 Maggio magro per davvero, in occasione del quale le stesse organizzazioni sindacali dovranno iniziare a riflettere sul loro ruolo nel sistema produttivo odierno, visto che la loro delegittimazione è sotto gli occhi di tutti, ancor più di quella dei partiti tradizionali e della politica.
Il giudizio, infatti, da parte dell’uomo comune sull’attività sindacale non sempre è dei più rasserenanti per gli stessi sindacati, per cui ipotizzare uno scenario nel quale i lavoratori – quei pochi che, ancora, resistono nei luoghi di lavoro – non sono protetti da organizzazioni sindacali, pienamente legittimate, rappresenta un ulteriore fattore di inquietudine, a cui bisogna dare una risposta pronta, immediata e convincente. Frattanto, dominano gli imbonitori, quanti cioè continuano a promettere sorti progressive dell’umanità a fronte di una crisi economica strutturale, che solo un cieco potrebbe negare.
Il prossimo tempo storico, che vivremo, sarà quello degli apocalittici o degli integrati? Anche, a questa domanda il 1 Maggio dovrà fornire una risposta plausibile.