L’arte è ciò che resta

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di Sarah Galmuzzi

Da settimane non si fa altro che parlare e irridere la nuova installazione in Piazza Municipio, l’arcinota ‘Cosa grande’ di Gaetano Pesce, il celebre designer contemporaneo di recente scomparso che forse sarebbe rimasto sconosciuto ai più -certamente alla maggioranza di chi ne parla in queste ore- se non ci avesse regalato l’opportunità di destreggiarci tra battute e calembour, meme pirotecnici e allusioni grossolane, il tutto partorito da menti spesso geniali, più spesso modeste, ma sempre in tempi incredibilmente rapidi a cui la cultura del cotto e mangiato ci ha reso avvezzi.

In meno di 48 ore il big pene di Gaetano Pesce era tra i pastori di san Gregorio Armeno, sulla pizza di Gino Sorbillo, sulla copertina di Arrapaho, in piazza dei Miracoli al posto della Torre di Pisa, e naturalmente con Rocco Siffredi testimonial.

Tutti hanno ritenuto di doverne scrivere, tutti hanno ritenuto di doversi esprimere sulla questione: scrittori, giornalisti, attori: credo di aver visto addirittura un’intervista a Paola Barale sull’argomento chiamata -poverina!- a discettare se si trattasse di una grande opera d’arte o un pene in erezione.

Per i diversamente giovani -come chi scrive- immediatamente il pensiero è volato a Bellavista e ai suoi sodali chiamati a interrogarsi sul cesso scardato di Wesselmann estratto dalle macerie da un improbabile muratore del 3000.

E in fondo va bene cosí perché l’arte è ciò che resta.

E se quello che anima intorno a sé è un chiacchiericcio divertito, uno sgomitare imbarazzato, un rigurgito cattocomunista, ce lo prendiamo per come viene. Il segreto della vita in fondo è misurarsi la palla, quando tutto va male, riderci su: ci sono riusciti perfino i rappresentanti delle nostre istituzioni costretti a capitolare di fronte all’ambiguità dell’installazione da loro stessi voluta ma -come sempre più frequentemente accade, oramai- mal ponderata nella sua esecuzione.

Insomma, il big pene è riuscito a strappare un sorriso a tutti, tranne che alle femministe insultate dal -cito- “trionfo della misoginia fallocratica dopo secoli trascorsi a destrutturare potere e cultura maschiocentrica e patriarcale” (qui la lettera aperta https://www.facebook.com/ERMoCOViSuDo/photos/da-firmare-e-condividere-al-sindaco-di-napoli-egregio-sig-sindacole-scrivono-alc/949119177045962/?_rdr)

Ora, che l’opera sia brutta (chi scrive personalmente la trova terrificante) ci può stare, ma parlare di religione del fallo, a Napoli, dove l’organo maschile assume un valore talmente simbolico ed astratto da sintetizzarsi nel corno portafortuna a cui tutti noi abbiamo consegnato le nostre speranze almeno una volta nella vita, mi sembra veramente delirante.

Ma ve le immaginate le signore firmatarie del manifesto a redarguire tutti i venditori di limonate a cosce aperte, censurare le sirene culone di Trallallà, incappucciare tutti i corni e i cornicielli venduti ad angolo di strada?

Mi piacerebbe piuttosto invitare le colleghe di genere ad approfondire un’altra questione, ben più seria di quella di un pisellone di tela al centro di una piazza: quella del gender gap nel mondo dell’arte, della disparità salariale, fenomeni dai risvolti molto meno politically correct ma decisamente più tragici. O a riflettere sulla rappresentazione del corpo femminile nella storia dell’arte, questione affrontata in maniera sublime da Michela Murgia il cui pensiero intelligente manca ogni giorno di più.

Forza ragazze, un piccolo sforzo: guardare la luna e non il dito che punta ad essa è la nostra ultima speranza.

https://www.facebook.com/ERMoCOViSuDo/photos/da-firmare-e-condividere-al-sindaco-di-napoli-egregio-sig-sindacole-scrivono-alc/949119177045962/?_rdr

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