di Padre Maurizio Patriciello
(Articolo apparso sul Corriere del Mezzogiorno Martedi 24 Febbraio)
È morto nello stesso giorno di Pasquale, il ventenne di Acerra, cintura nera di karate, dilaniato dal cancro. Carmine Schiavone, il boss del clan dei Casalesi, poi collaboratore di giustizia, se ne è andato con un carico immenso di colpe e di peccati. Credo che nessuno, tranne i suoi più stretti familiari, lo rimpiangerà. Di male, Schiavone ne ha fatto tanto. Troppo e per troppo tempo. Due anni fa, dopo avere ascoltato una sua intervista in televisione, gli scrissi una lettera. “ Carmine, fratello mio … ti chiedo di metterti oggi a servizio del bene così come per tanto tempo hai obbedito al male …” Gli chiedevo di indicarci con esattezza i siti dove erano stati interrati i rifiuti pericolosi. Conclusi la missiva inviandogli la mia benedizione. Pochi giorni dopo mi fece sapere che era disposto a incontrarmi. Arrivammo all’ appuntamento in quattro. Fu un incontro lungo e devastante dal quale uscimmo come frastornati. Schiavone ci raccontò cose assurde, quasi impossibile da credere.
Come quando teneva gli esami ai figli di parenti e amici, studenti in Medicina, al posto del legittimo docente. Incredibile. Ci raccontò che ai suoi tempi, tutte – ma proprio tutte – le amministrazioni locali del Casertano e del Napoletano, e fino al basso Lazio, sia di destra che di sinistra, erano agli ordini del clan dei Casalesi. In riferimento al disastro ambientale, continuava ripetere che l’ unica cosa da fare era scappare via, abbandonare i nostri paesi e trasferirci altrove. Ero annichilito, arrabbiato, incredulo. Mi feci coraggio e gli dissi: « Carmine, posso essere sincero e dirti ciò che penso?». « Certamente» mi rispose. « Ma che razza di camorristi siete stati, se avete permesso a degli squallidi personaggi del Nord di avvelenare le vostre terre e i vostri stessi figli? ». « Hai ragione, don Patriciello, ma credimi se ti dico che nessuno di noi, allora, era in grado di capire la gravità dello scempio che stavamo permettendo. Quando l’ ho capito mi sono messo contro tutti, per questo mi hanno fatto arrestare …». Era un fiume in piena. Parlammo per più di quattro ore. Mi faceva male la testa, avevo voglia di scappare, mi sembrava di essere fuori dal mondo. Tenne la sua mano – quella stessa mano che aveva tante volte ucciso – sul mio braccio per tutto il tempo. Mi faceva, però, anche pena questo vecchietto dai capelli bianchi. Eppure l’ uomo che mi stava davanti aveva ammazzato con le sue stesse mani almeno una cinquantina di persone e aveva comandato di eliminarne almeno cinquecento. Ce lo raccontò lui stesso. A sentirlo, mi venivano i brividi. In cuor mio non smettevo di pregare. Mi ringraziò per averlo chiamato “ fratello Carmine” e per averlo benedetto, mentre era stato sempre e solo maledetto. Dopo quell’ incontro mi telefonò diverse volte. Era sempre lui a parlare, io lo ascoltavo, intervenendo di rado. Mi teneva a telefono per lunghissimo tempo parlando sempre e solamente di Dio, di papa Francesco, che adorava, e di una sua nonna molto buona che ricordava con affetto. Ogni volta mi ripeteva che non si toglieva mai dal collo la croce di legno che gli avevo regalato quel giorno a Roma. È stato un vero pentimento, il suo, o si è trattato solo di una strategia per evitare il peggio? Non saprei. So solo che il cuore dell’ uomo è un mistero grande e insondabile. Chi mai potrà scendere negli anfratti dell’ animo umano? Carmine Schiavone e i suoi complici hanno fatto tanto male alla nostra terra e alla nostra gente. Hanno fatto versare troppe lacrime, hanno spento la speranza in molta gente. Inveire contro di lui, però, adesso che è morto, maledire la sua persona è non solo inutile ma dannoso. Non deve accadere. Al contrario, proprio guardando al male che ha fatto, deve sgorgare in noi il desiderio di impegnarci sempre e solamente per il bene, sapendo che “ alla sera della vita ciò che conta è avere amato”.