di Gianluca Spera
L’affare Moro è davvero il nodo gordiano della storia italiana più recente. Attorno al sequestro e alla morte del leader democristiano, ruotano tutta una serie di vicende collegate che delineano i contorni inquietanti di un periodo buio fatto di misteri, piombo e delitti irrisolti. Per esempio, il 20 marzo 1979, un anno dopo l’agguato di Via Fani, venne ucciso Mino Pecorelli, direttore del periodico OP-Osservatore Politico.
L’esecuzione avvenne di sera, nei pressi della sede del giornale, a pochi passi dalla Corte di Cassazione. Un sicario gli esplose quattro colpi di pistola mentre Pecorelli stava per avviare il motore della macchina. I proiettili rinvenuti sul luogo dell’omicidio erano di marca Gevelot, dello stesso tipo di quelli poi scovati nell’arsenale della Banda della Magliana incredibilmente nascosto nei sotterranei del Ministero della Sanità (quasi come se si volessero indirizzare fin da subito le indagini in una determinata direzione).
Un altro esponente della stessa Banda, Tony Chichiarelli, personaggio controverso e misterioso (colui che confezionò il falso comunicato delle Brigate Rosse durante il sequestro Moro, che spinse gli investigatori a ricercare invano il corpo del politico democristiano nel Lago della Duchessa), abbandonò su un taxi, successivamente all’uccisione di Pecorelli, alcuni oggetti che rimandavano al sequestro Moro, oltre che una serie di schede che riguardavano personaggi particolarmente in vista. Su una di queste, forse parte di un depistaggio, era contenuto un appunto nel quale si ordinava l’eliminazione del giornalista. Allegata vi era un’altra nota con cui in via anonima si comunicava che l’operazione era stata rinviata a causa di un incontro dello stesso Pecorelli con un alto ufficiale dei Carabinieri in Piazza delle Cinque Lune. L’alto ufficiale era Antonio Varisco che decise di lasciare l’arma dopo la morte di Pecorelli.
Dopo qualche mese, tuttavia, poco prima del congedo definitivo, cadde anche lui vittima di un agguato sul Lungotevere Arnaldo Da Brescia. Insomma, come in una trama scespiriana, a un delitto seguiva sempre un altro delitto in apparenza collegato uno all’altro come tasselli di un complicato puzzle. Senza considerare il fatto che Pecorelli, oltre alla propria di scomparsa, aveva profetizzato anche quella del generale Dalla Chiesa (definito in alcuni pezzi generale Amen). La leggenda narra che Dalla Chiesa fosse un altro dei partecipanti alle riunioni segrete di Piazza delle Cinque Lune, aventi a oggetto il caso Moro. L’oggetto di quegli incontri era sempre il famoso memoriale redatto da Moro durante la prigionia. Poche settimane prima di essere ammazzato, Pecorelli aveva annunciato di esser in grado di rivelare altri particolari scottanti: Torneremo a parlare del furgone, dei piloti, del giovane dal giubbetto azzurro visto in via Fani, del rullino fotografico, del garage compiacente che ha ospitato le macchine servite all’operazione, del prete contattato dalle BR, del passo carrabile al centro di Roma, delle trattative intercorse…”.
Niente di tutto questo perché la tragica fine di Pecorelli comportò anche la chiusura del giornale e la fine delle sue inchieste. In seguito, ci rimetteranno la vita anche Varisco e, qualche anno dopo, a Palermo, il prefetto Dalla Chiesa. Così come lo stesso Chichiarelli, vittima di un presunto regolamento di conti nel 1984 la cui ricostruzione non è mai stata del tutto chiarita, esistendo addirittura due diverse versioni dell’accaduto.
Oggi, sappiamo che non esistono colpevoli nemmeno per l’omicidio di Mino Pecorelli. Uno dei tanti delitti senza soluzione della storia recente italiana. Sul banco degli imputati, è finito addirittura Giulio Andreotti accusato di essere il mandante (condannato in appello a ventiquattro anni di reclusione, poi assolto dalla Corte di Cassazione). Andreotti era uno dei bersagli preferiti degli articoli urticanti di Pecorelli. Per uno strano scherzo del destino, l’assassinio del giornalista è avvenuto qualche ora dopo il giuramento del quinto governo Andreotti. Peraltro, nella redazione di OP, venne ritrovato da Varisco un bigliettino con un’illustre sottoscrizione: Caro Pecorelli, le invio questo medicinale perché possa lenire la sua cefalea. Io, come lei sa, soffro del medesimo male. Importante è comunque che lei si prenda un periodo di riposo. Giulio Andreotti (la circostanza fu divulgata da Giuseppe D’Avanzo sul Corriere della Sera nel 1999).
Questo dimostra come Pecorelli fosse un giornalista scomodo, coraggioso, il baco del sistema come si direbbe nel linguaggio moderno. I suoi articoli erano certamente aggressivi, allusivi, sarcastici. Dagli stessi trapelava una grande passione civile ma forse anche una certa tendenza ad assecondare le sue fonti e i loro giochi di potere. Forse, era il prezzo da pagare per diventare l’interlocutore privilegiato di alcune gole profonde che tessevano le loro trame lontano dai riflettori.
Pecorelli, infatti, disponeva di contatti tra personalità politiche e funzionari dell’intelligence. Era così diventato il custode di diversi segreti di Stato, materiale imbarazzante e pericoloso da divulgare. Fu particolarmente attivo nei giorni del sequestro Moro (OP era l’unico organo di stampa ad aver pubblicato alcune lettere spedite dal leader democristiano ai suoi familiari). Secondo la tesi di Pecorelli, il generale Dalla Chiesa avrebbe rivelato addirittura a Cossiga l’ubicazione del covo in cui era ostaggio Moro senza che, peraltro, il ministro degli Interni si adoperasse per la liberazione, essendo vincolato nei confronti di personaggi oscuri.
Insomma, Pecorelli aveva accesso a informazioni più che riservate. Il discredito seguito alla sua morte ricorda i metodi usati anche in altri casi simili, per esempio nel delitto Impastato. Pecorelli è stato descritto nel migliore dei casi come un diffamatore, se non come un vero e proprio estorsore professionista. Il suo tenore di vita, i debiti contratti con distributori e tipografie, hanno smentito seccamente quest’ipotesi.
Pecorelli fu ucciso perché, come Pasolini, sapeva e poi metteva nero su bianco. Nelle fasi precedenti alla sua morte, era costantemente pedinato, minacciato, quasi braccato. La sua macchina era stata danneggiata diverse volte mentre gli esposti per le presunte diffamazioni si andavano moltiplicando. Un giorno, dopo aver confidato al suo avvocato di temere per la propria vita, diede corpo alle sue paure in un articolo dal tono tragicamente premonitore: I nostri lettori e coloro che ci stimano saprebbero riconoscere immediatamente la mano che ha armato chi vorrà torcerci anche un solo capello.
Invece, dopo trentanove anni, non è stata individuata né la mano, né la mente di quell’atto barbaro.