di Alessandro D’Orazio
La domanda d’obbligo diventa allora: in una società come quella odierna, serve ancora il pezzo di carta?
Secondo quanto riportato da una indagine Eurostat, sulla base di dati provvisori relativi al livello di istruzione nell’anno 2017, il nostro Paese sarebbe il secondo peggiore in Europa per numero di laureati dopo la Romania.
Dai dati emersi, è stato reso noto infatti che meno di una persona su sei, tra coloro che sono in età da lavoro, possiede una laurea. L’Italia, inoltre, si colloca al primo posto, se si fa riferimento agli uomini laureati, con il 13,7% di coloro che hanno tra i 15 e i 64 anni. La percentuale sale al 18,9% per le donne, dato peggiore in tutta l’Unione Europea (29,7% la media) dopo la Romania.
A questo punto verrebbe spontaneo chiedersi: il pezzo di carta serve ancora? In una società come quella odierna, così complessa ed in continua evoluzione, dove il mondo del lavoro è in frenetico mutamento e le prospettive di una stabile occupazione per i giovani diminuiscono sempre più, è stato rilevato che la condizione dei laureati italiani è più vantaggiosa rispetto a quella dei coetanei diplomati.
Questione di titolo dunque? Sembrerebbe all’apparenza proprio di sì. All’aumentare del titolo di studio posseduto, secondo quanto riportato da un rapporto dello scorso anno di Almalaurea, “diminuisce il rischio di restare intrappolati nell’area della disoccupazione”; “generalmente i laureati sono in grado di reagire meglio ai mutamenti del mercato del lavoro, disponendo di strumenti culturali e professionali più adeguati”. Inoltre, i vantaggi occupazionali rispetto ai diplomati nell’arco di tutta la vita lavorativa sono decisamente migliori: il tasso di occupazione della fascia d’età 20-64 è del 78% tra i laureati, contro il 65% di chi è in possesso di un diploma.
Se però i nostri laureati guadagnano meno dei coetanei stranieri con lo stesso titolo di studio, non diciamolo troppo forte: deve rimanere un segreto!