di Enrico Ariemma
“non mi uccise la morte
ma due guardie bigotte
mi cercarono l’anima
a forza di botte”
Ho visto un film, si chiama Sulla mia pelle.
Ho visto un film più commovente che forte, più discreto che urlante, più intimista che ideoligizzato, ho visto un film che è, semplicemente, esserci, autentico stare accanto a chi soffre, dunque alimentare la propria presenza non come, vicinanza o lontananza, ma in conseguenza di comune sentire, in greco si diceva ἑμπάθεια, “essere nello stesso dolore”, pur senza averlo sperimentato, vissuto sulla propria pelle, eppure soffrirne come se fosse proprio, immaginando, fantasticamente, che sia accaduto a noi, e questo legame tra autore, interprete e pubblico, tra regista, attore e spettatore, è un inestimabile plus che solo l’arte vera regala a chi sappia coglierne i diamanti di bellezza scabra e inquieta.
Ho visto un film la cui dignità straordinaria sta anche nella sua imparzialità totale, non equidistanza, termine pilatesco e paraculo, ma imparzialità, la visione di chi prova a far luce sulle cose con equilibrio e giudizio, senza melodrammi beatificanti intonati per chi muore giovane, e senza demonizzazione esibita per le divise deviate, rispetto totale del e per il corso degli eventi ma lampi di illuminazione su incuria, storture, implosione irresponsabile, incurante e incuriosa, perché poi nessuno vuole problemi, dei pochi cardini su cui si regge uno stato di diritto, insomma forze armate e sanità.
Ho visto un film in cui l’arte sottile e difficile del rapporto tra parola parlata e silenzio urlante cammina, con divina maestria, su un crinale scivoloso e lubrico, per cui al Cucchi detentore per ammissione e forse qualcosa di più non si fanno sconti, ma al Cucchi pestato e devastato nel corpo e nell’animo, al Cucchi che sceglie il mutismo figlio o dell’omertà da borgata o della vergogna da pestaggio, viene resa giustizia proprio attraverso la rimozione di qualsiasi scena esplicita di violenza, perchè qui non siamo su Acab, qui è ex silentio che si ricava l’abominio, l’aberrazione, il fasciosuperomismo di chi si ritiene oltre la legge ricevendo in cambio impunità perenne, copertura pregiudiziale, omertà conciliante, tutte altezze, queste, cui soltanto la poesia filmica più alta può elevarsi omettendo il ricorso facile alla denuncia urlata, ma scegliendo di rinunciare al linguaggio grammaticalizzato.
Ho visto un film in cui gli attori divengono persone di carne che stilla sangue, così come stilla sangue la carne di chi guarda, Alessandro Borghi si cala dentro Stefano anullandosi e assumendone pelle, linguaggio, timbrica e modulazione di voce, Stefano gli calza addosso come una guaina aderentissima, e alla fine non sei più dentro a un film, sei nella realtà vera e ti chiedi quali diritti avrai se un giorno la polizia ti ferma e si incapa o si incricca su una cosa che non hai fatto, e Max Tortora che, titanico, ci spiega che cosa sia il dramma di essere padre, quando la gioia di amare un figlio intercetta la distanza, il silenzio, la stanchezza, perché su quell’ “abbracciame papà” io ho versato le lacrime di chi come me, padre, per un motivo qualunque un giorno potrebbe sentirselo dire, e Jasmine Trinca, stupenda sorella nobile e leonina come l’Ilaria reale, ultimo baluardo di coraggio da opporre all’oblio di stato, e che peccato quel che di compressione per un personaggio che forse meritava respiro, non solo cinematografico, più ampio.
Ho visto un film che fa pensare, senza proclami antiqualcosa, ai Sandri, agli Aldovrandi, alle derive fasciste della Diaz e della Rainiero e dio non voglia che sussistano ancora altre tragedie di malapolizia occultate o edulcorate in nome della solidarietà per gli spaccanonsocosa di turno, un film che mi instilla il terrore della volontà di potenza di alcuni, della loro certezza di impunità, della loro violenza corporativa, della loro connivenza silente che si riverbera su di me come sfiducia, insofferenza, nudità, un film che racconta, senza raccontare come, un film che fa pensare ai ruminanti di allora, al crasso giustizialismo da benpensante da divano, al qualunquismo ributtante di chi alla fin fine diceva “chissà che avrà combinato quel delinquentucolo, uno di meno”, zozzerie da far vergognare a vita chi plaudeva, o faceva spallucce, a un omicidio perpetrato ai danni di chi se l’era cercata (sic), come magari la donna in minigonna, suvvia, lo stupro se lo cerca, roba da augurare a costoro, borghesotti col canarino, il figlio ventenne educato dalle suore che fa una cazzata, una bravata, una alzata di testa, e finisce poi come finisce, se trovi lo spaccacomesichiama di turno.
Ho visto un film che rivedrò, forse oggi stesso, e forse anche domani.
Ho visto un film in cui un ragazzo picchiato, pestato, massacrato, ridotto a sfogo di laide frustrazioni, di perversioni di deviati in quanto tutori dell’ordine e in quanto uomini singoli, un ragazzo con un suo tortuoso sistema operativo che richiedeva interfacce competenti e delicate, è alla fine disperato perché sa che la sua famiglia si dispera per lui, e forse questo rigurgito di umanità ordinaria e sublime insieme è il lascito più vivo e vero, l’eredità più calda e pulsante di Cucchi Stefano, anni 31, geometra per scelta propria e ombra di uomo per infamia altrui.