di Alessandro D’Orazio
Fin dai tempi più remoti i fermenti popolari hanno costituito un profondo motivo di inquietudine da parte delle classi dirigenti di ogni Stato. Di rivolte – nella loro accezione di sollevamento delle masse contro un ordine ben identificato e spesse volte coincidente con lo Stato – ve ne sono state moltissime anche in un continente “civile e democratico” come quello europeo. Tale concetto, da distinguere da quello di rivoluzione per la più limitata circoscrizione, sebbene non sia in grado di sovvertire la forma di governo di un determinato Paese, riesce comunque ad avere ancora oggi un’eco mediatica di enorme rilevanza.
Negli ultimi giorni si è assistito a violenti scontri tra il governo francese e i cosiddetti “gilet gialli”, un movimento di protesta nato contro la decisione del presidente Macron di aumentare le tasse sui carburanti in considerazione della transizione ecologica, a cui il Paese sta andando incontro. I manifestanti hanno letteralmente messo a ferro e fuoco la capitale francese, profondendo una rabbia ed un risentimento all’apparenza indomabile.
Indipendentemente dalle ragioni della protesta è evidente che il furore impiegato travalichi motivazioni di carattere meramente economico per approdare ad un triste senso di esclusione, ove giacciono da tempo immemore, molte degne e silenziose province d’Europa. Terre quest’ultime – dalla Francia alla Spagna, dalla Grecia alla Gran Bretagna – in cui il dilagante populismo, così come dipinto dai media, annega in realtà le sue radici nelle latenti insoddisfazioni dei popoli moderni.
Quegli stessi popoli, in democrazia o in tirannide poco cambia, schiavi di logiche finanziarie senza significato, imbruttiti dalle disperate esigenze di ogni giorno (carenza occupazionale in primis) ed infine rassegnati alle pretese politiche di un continente non più in grado di reagire alle sollecitazioni ormai palesate.
Se l’uso della rete e dei social network ha probabilmente modificato l’organizzazione dei fermenti di piazza, dall’altro lato la controllabilità degli stessi ha generato nell’opinione pubblica il lieto convincimento che mai le democrazie europee potranno essere scalfite da isterie di sorta.
Tutto ciò, però, ha irrimediabilmente spostato l’attenzione dai problemi di fondo: quelli che i popoli con insistenza rivendicano! E se a questo si aggiunge uno scollamento marcato tra le classi dirigenti e le rappresentanze dei movimenti di volta in volta costituiti, si può rilevare quanto grande sia il nodo da sbrogliare. In alternativa allo status quo rimane, dunque, la convinzione che l’Europa dei popoli e delle culture non sia affatto quella che appare all’uomo moderno. Ciò che renderà veramente Europei i cittadini del domani sarà esclusivamente l’ardente desiderio di riscoprire le proprie antiche radici.