“io ti dico è stato meglio lasciarci
che non esserci mai incontrati”
La grande poesia è tale perché attinge le vette sublimi dell’universale, perché crediamo sia il resoconto in versi di uno stato d’animo individuale e invece, nel momento in cui la leggiamo, troviamo noi stessi, dunque siamo noi a esser letti dalla poesia.
Adesso è il momento di affrontare lo shock di una separazione in corsa, l’idea di convivere d’improvviso con la scissione, col taglio, con la de-cisione che è re-cisione, con la necessità di storicizzare e archiviare i suoi primati, di avere coscienza che non ci saranno più regali da scartare in forma di pubbliche dichiarazioni dal sapore sapore “erotico” e “poetico”, e che forse, ma glielo si perdonerà, il celebre e amatissimo “se un giorno dovessi andare via da Napoli sarà perché mi stanno cacciando, io rimango qui, questa è la mia casa” non dice esattamente come i fatti sono andati.
Adesso, lungi dal giudicare l’opportunità di un impoverimento tecnico umano simbolico tanto vistoso a stagione incorso è il tempo del bilancio, e intendo il bilancio personale, di ognuno, non quello tecnico del calciatore che parte, perché si tratta di riconsiderare 12 anni di vita da tifoso, sempre lo stesso sediolino in curva e migliaia di chilometri consumati al suo seguito, 12 anni che passano davanti agli occhi con la velocità di un frecciarossa e qualche schizofrenico fermo immagine a scandire punti di svolta, segnature epocali, insomma la possanza delle imprese, la caratura, oggettiva o meno, della sua arte, i peana di chi lo ha esaltato in maniera pregiudiziale e dogmatica, le voci di chi, come me, ha esercitato un occasionale diritto alla critica godendosi contestualmente gli oceani di estasi che ha distillato, e lo starnazzare di chi lo ha di tanto in tanto ma con stolta, francescana ostinazione bollato come bidone, il bidone nel quale sarebbe stato meglio catapultarsi.
In dodici anni il ragazzino timido col viso imbarazzato, bullizzato da Gattuso, pur nella sua inconscia, genetica, ontologica riottosità a dotarsi di un aplomb di da trascinatore in campo e fuori, è diventato leader silenzioso e icona di una città, cartesianamente misurato e genialmente incontinente, titolare di un rapporto anticipatario con lo sviluppo del gioco, e poi rutilante e incontinente in quelle esultanze ora mani al petto, ora da karateka contro una bandierina innocente, ora a orecchie larghe come nel leggendario “non sento un cazzo”.
L’adolescente spaurito e senza cresta, dal coast to coast contro il Milan alla sventagliata di quaranta metri di ieri sera a innescare il primo superbo gol di un altro slavo, ha sempre implementato la sua innata attitudine all’incidenza concreta e preventiva sulle situazioni di gioco da autentico ordinatore di caos, da archegeta di una matematica del controllo, è stato, è tuttora, uno dei più raffinati “totali” d’Europa, anche se ha dato il meglio in ambienti particolarmente congeniale all’espressione dei pezzi migliori del repertorio, attacco dello spazio perché di spazio ne vedeva sempre tanto, gioco tra le linee, gol di inserimento o a rimorchio, margini per il tiro da fuori.
È stato alfa e omega, creatore e finalizzatore, calciatore di previsione perché concludeva anche tanto, io ho visto tanti centrocampisti migliori di lui in molti singoli aspetti, e nessuno che facesse tante cose insieme e bene come le faceva lui, nessuno completo quanto lui. Viene da chiedersi quale servizio renderebbe alla comunità degli umani una intelligenza così viva e schematica e al tempo stesso così poco visibile in prima battuta, quel cocktail così virtuosamente shakerato tra virtù della pianificazione ed estemporaneità della soluzione geniale, se applicate all’oncologia, all’urbanistica, all’economia.
Forse Il salto di qualità reale, la prova di maturità, la discriminante che avrebbe marcato l’apice di carriera, lo hanno sorpreso assente all’appuntamento, o, se anche alla serata di gala ci è arrivato nella carrozza da guest star, ha stonato quel papillon fuori posto, è stato dissonante il gilet col bottoncino ballerino, ed è anche vero che in tante partite che contano non ha inciso, forse per faccende più tecniche che caratteriali ma per noi questa imperfezione è stata ricchezza, forse è stato l’anello che non ha tenuto ma che ha permesso a noi di godere di lui per dodici anni che sembravano infiniti e che si sono nullificati nel battito d’ali di un secondo, maledetto tempo che stringe l’esistenza in un nodo scorsoio. Ma Marek Hamsik sarà sempre l’uomo dei record, di presenze complessive e in campionato, di marcature, di afflato europeo, 100 in campionato, del 121 in azzurro, il che lo proietta nel canone dei grandissimi. 100, 121, più di Maradona, e superare Maradona in qualunque graduatoria è entrare nella storia dalla porta principale e col tappeto rosso.
E dunque, arrivederci e ogni bene, Capitano, quanti paccheri tirati ‘a mano, quante jastemme alluccate cu sta vocca, auguri ai tuoi muscoli di plastica e di metano, auguri anche al sangue azzurro che hai nelle vene, auguri alla croce e alla delizia che sei stato, e grazie per avermi sempre instillato la sensazione tangibile e translucida che quella volta l’anno che non giocavi, non giocasse il Napoli, ti amo come un figlio – “il figlio che amo di meno”, una volta mi hanno detto così – e quasi quasi di qualcosa ti chiedo io perdono.
Rimane, come per tutti i grandi che vanno via, dalla vita o dalla città, soltanto quel che ha donato, l’opera d’amore, il lascito che ci rende ricchi del passato, poveri di presente, incerti di futuro.
Perché non sarà (sol)tanto il Napoli ad essere diverso, senza il Capitano.
Sarà diverso per ognuno di noi, diverso e doloroso, andare a vedere il Napoli.