di Alessandro D’Orazio
Il fenomeno delle privatizzazioni ritorna ciclicamente agli onori della cronaca ed accende dibattiti mai sopiti tra tecnici e studiosi, i quali a seconda dei casi ne dipingono virtù o ne abbattono entusiasmi. Ma l’interrogativo che ruota intorno all’effettivo rapporto tra rischi e benefici – come can che morde la sua coda – permane nella mente del comune cittadino, al quale spesso non è dato conoscere il reale fenomeno nella sua essenza.
La dottrina suggerisce che una privatizzazione sia individuabile in un processo economico e giuridico di trasferimento di un bene, di un’attività, di un soggetto dal regime di diritto pubblico a quello di diritto privato. Lo stesso fenomeno può inoltre essere inquadrato sotto un duplice profilo: formale o sostanziale. Nel primo caso si intende la trasformazione dello status giuridico di un ente, ossia il suo passaggio da una configurazione giuridica pubblicistica a una di diritto comune, in cui il principale azionista rimane lo Stato; nel secondo, invece, si assiste all’effettiva dismissione delle quote azionarie pubbliche, ovvero la cessione del controllo dalla mano pubblica a quella privata.
Nel nostro Paese le prime privatizzazioni vennero eseguite a partire dagli anni Novanta con la finalità di un risanamento delle dissestate finanze pubbliche. Nel corso del tempo tale politica ha prodotto particolari effetti di mercato, che ad un occhio attento hanno messo in risalto considerazioni contrastanti. Da una parte, infatti, il vantaggio di una privatizzazione consente di ridurre le spese dello Stato in termini di gestione delle risorse, garantendo quella maggiore efficienza tipica del settore privato.
Lo Stato dunque non deve più investire né in gestione e manutenzione né in sviluppo dell’azienda o del servizio pubblico; l’onere passa direttamente in mano ad un privato, che sospinto dalla legge del profitto, si dimostra generalmente più propenso ad un’amministrazione attiva, persecutrice di scopi più redditizi per l’azienda. Dall’altra, però, la privatizzazione ha evidenziato anche alcuni limiti, tra cui il fatto che spesso i vantaggi presunti sopraesposti non si concretizzano nel bene dell’azienda e della collettività, ma al contrario generano costi imponibili all’utente in considerazione di speculazioni economiche da parte del gestore.
Il dibattito dovrebbe dunque spostarsi, a giudizio di chi scrive, su una valutazione che tenga conto della distinzione da effettuare nell’ambito delle varie forme di privatizzazione contestualmente all’offerta dei beni pubblici o prodotti in ambito pubblico oggetto del contendere; così come è peraltro necessario distinguere se la privatizzazione sia riferita alla cessione della gestione della produzione piuttosto che alla proprietà stessa della produzione. In sintesi, da come si può ben intuire: privatizzazione che vuoi, vantaggio o limite che trovi. E se lo dicevano i latini – i quali disconoscevano le logiche del libero mercato – che “in medio stat virtus”, probabilmente un fondo di verità dovremmo pur concederlo loro.