di Rosario Pesce
Una delle tematiche più discusse è sempre stata quella inerente al rapporto fra l’arte ed il mondo. Infatti, due sono tradizionalmente le visioni in merito a tale tema: da una parte c’è chi pensa che l’arte debba essere un’astrazione rispetto alla contingenza storica e mondana, mentre dall’altra parte c’è chi, invece, ritiene che l’arte debba offrire il proprio contributo per la crescita non solo culturale del contesto in cui essa si genera.
Un’antitesi, quella fra Realismo ed Idealismo, che ha segnato la teoresi filosofica per oltre due millenni. Già, i Greci si interrogavano intorno a tale problematica, producendo le due visioni opposte, quella idealistico-platonica e quella realistico-aristotelica, che sono state punti di riferimento essenziali nei secoli successivi.
È ovvio che tale antitesi ha ragion d’essere, in quanto ciascuna delle due visioni ritiene diversa la genesi del momento artistico. L’idealismo pone al centro la soggettività, che può essere – dunque – essa stessa un mondo distinto rispetto a quello della mondanità in senso stretto. Dalla parte opposta, invece, si ritiene che il mondo sia l’insieme dei significati che, nella sua totalità, l’arte deve saper realizzare e concretizzare, usando un linguaggio idoneo all’oggettività naturale che può riprodurre.
Ed, allora, la domanda sorge immediata: nei momenti storici di grande crisi sul piano economico-sociale e politico, la cultura deve essere di impronta idealista o realista?
È, forse, ovvio che la seconda soluzione può essere più opportuna in un contesto di grandissimi cambiamenti?
Ma, quale sarà la traccia che l’arte saprà imprimere al cambiamento? E l’arte, che avrà sollecitato il cambiamento, sarà compiutamente arte per tutti?
Sono interrogativi, questi, che certo intrigheranno sempre il pensiero umano, in qualsiasi epoca e contingenza. Forse, una risposta non è esprimibile, se non in una prospettiva teleologica che, solo, le fedi e le filosofie della storia possono disegnare in modo compiuto e soddisfacente?