“Soffrire di depressione vuol dire non desiderare più nulla, non avere la forza di cambiare. Ci sentiamo soli anche in mezzo agli altri, che spesso non comprendono la nostra sofferenza. Siamo incapaci di amare e nello stesso tempo abbiamo un disperato bisogno di affetto.”
Parlare di depressione, di attacchi di panico è complesso ed ancora oggi richiede coraggio per chi convive quotidianamente con una percezione della realtà alterata, ed è costretto ad immergersi in un mondo che non comprende, che non ascolta e che non accoglie.
Che sia un dramma sociale è un dato evidente, per cui non mi soffermerò sui numeri degli ammalati, sulle vendite dei farmaci, sulle strutture pubbliche incapaci di creare spazi adeguati di cura e di sostegno per l’ammalato e per la famiglia. Sì, il depresso non è una entità solitaria, chi soffre di panico non è un essere umano, piegato in due chiuso in una stanza, interagisce con la famiglia, spesso con i figli, con compagni, e non riesce a spiegare quello che sente o come lo sente.
Parlo con la cognizione di causa di chi convive con il mostro da una vita, con chi ha avuto in famiglia casi di depressione molto seri, e si è trovata sola a dover affrontare il mostro sin dalla più tenera età. Provate un solo istante ad immaginare cosa può accadere ad una adolescente che ha un attacco di panico in classe, durante una lezione di storia, provate ad immaginare cosa significa quell’ ansia di morte che avvolge corpo e mente, il sudore che scivola sulla fronte copiosamente ed i tuoi compagni che ti guardano sbigottiti e spaventati.
Provate ad immaginare cosa significa avere paura di uscire da sole, temendo di perdere l’equilibrio, o dello sguardo degli altri, con la sensazione di avere una sorta di lettera scarlatta cucita sulla fronte; provate per un solo istante a dover rinunciare alle feste, ai luoghi troppo affollati, o a spiegare al ragazzo per cui avete una cotta mostruosa che non sei poi proprio, proprio come tutte le altre. Provate, vi prego ad immaginare cosa significhi andare da un’analista e chiedere aiuto, o a prendere farmaci che ti intontiscono, ma di cui non puoi fare a meno, e che porti sempre in tasca, per paura di “cadere”.
Ci si sveglia nel cuore della notte con il fiato corto, con l’idea che presto soffocherai, e devi aspettare diversi minuti, interminabili minuti prima di riuscire a cogliere che sei al sicuro in una stanza protetta e nel tuo letto. Perché racconto? Perché io credo che la più grande forma di difesa sia lasciare che gli altri comprendano, lasciare entrare gli altri nel nostro spazio buio, ma soprattutto lasciare che chi vive questa condizione non si senta solo, non si senta perso. In fondo nonostante tutto io sono convinta che si possa combattere, che sia dura, come altre battaglie certo, ma più complessa da affrontare, perché quando la malattia è impercettibile, è fatta di sintomi sottili, come fili rossi, viene affrontata con maggiore superficialità anche da chi dovrebbe dare aiuto.
Ed ancora, sono convinta che parlarne serva a prendere a calci il muro che ci isola e che ci rende ancora più fragili; che serva ad aprire la strada perché donne ed uomini di qualsiasi età smettano di vergognarsi di quello che sono, di come sono e dello sguardo con cui guardano alla realtà . Gli eventi della vita costruiscono molto di quello che siamo, ma quello che diventiamo dipende solo da noi, sempre.
E’ un modo, parlarne per tendere una mano, per cercare un po’ di luce e di colore, lungo il cammino che ci aspetta. Solo nella accettazione dei nostri limiti, e delle nostre paure, ci può essere la vera libertà ed una possibile, seppure limitata guarigione dell’anima.
“Il modo più sicuro di deprimersi è cercare di cambiare le persone e non cercare di cambiare le circostanze.”