di Alessandro D’Orazio
Nel dibattito culturale e politico italiano è recentemente tornato prepotente un concetto che da qualche tempo sembrava passato di moda: la meritocrazia, intesa come criterio di selezione degli individui da mandare avanti nella società. A ciò ci ha pensato il neo establishment della politica italiana, una formazione costituita nelle sue più differenti accezioni dalle persone di Matteo Salvini, Luigi Di Maio, Nicola Zingaretti e Giorgia Meloni: i leader dei quattro principali partiti politici del nostro Paese, accomunati tutti dal mancato conseguimento di una laurea.
La precisazione pleonastica che per fare politica a qualsiasi livello non occorra una laurea, non essendo la stessa un fattore determinante per stabilire se un politico sia più o meno capace, spinge tuttavia a fare considerazioni su come sia cambiata negli ultimi anni la nostra classe dirigente.
In particolare, una vena profonda delle civiltà umane ha da sempre pensato che da qualche parte dovesse esistere un ordine che ricompensasse ciascuno in base ai meriti che ha acquistato o lo punisse per le colpe commesse e cumulate. In genere questo ordine era concepito come sovrannaturale e rimandato ad una vita futura, poiché era troppo evidente che sulla terra un tale ordine non potesse esistere né fosse mai esistito.
Ad un certo punto, però, dentro l’evoluzione della civiltà occidentale è apparsa un’idea del tutto nuova e imprevedibile, quella secondo la quale una società meritocratica fosse finalmente possibile qui ed ora. Semplicemente perché una tale società in realtà esisteva già. Vale a dire un sistema quantificabile, misurabile ed ordinabile in una scala di valori – spesse volte coincidente con un titolo di studio – in modo che a ciascuno spettasse il suo, né più né meno. Una convinzione in grado di persuadere anche i più esitanti, poiché presentata come una forma superiore di giustizia distante tanto da un settario egualitarismo quanto da un netto classismo.
Nonostante questo, una vasta schiera di detrattori ha risposto a tali supposizioni ripetendo che il merito, di per sé, sia pura ideologia: una falsità scientifica diretta a placare le classi socioeconomiche più sfortunate attribuendo da un lato un senso di giustizia quasi divina a un mondo complesso e imprevedibile; dall’altro giustificando e legittimando la ricchezza e il privilegio delle classi più ricche. È la tesi rispettabile di molti pensatori, la quale non tiene tuttavia conto dell’ambito “italico” di applicazione! E se in un comune pugliese la notizia del giorno è l’assunzione, come operatori ecologici, di tredici candidati – quattro dei quali diplomati e ben nove laureati – una lieve anomalia rispetto a quanto palesato nell’incipit della presente trattazione dovrà pur sussistere.