di Rosario Pesce
Il dibattito delle ultime settimane, intorno al tema della prescrizione, ci obbliga ad una riflessione più ampia in materia di Giustizia, visto che l’esercizio corretto della stessa è la precondizione per uno Stato effettivamente democratico.
I cittadini, come da Costituzione, hanno diritto ad un processo equo e tempestivo, per cui la Legge principale dello Stato italiano impone che l’esito di un iter giudiziario debba avere una tempistica certa che eviti che l’innocente o colpevole sia, per troppo tempo, in attesa di un giudizio che gli dia giustizia della sua innocenza o che lo obblighi a pagare il proprio debito con lo Stato.
Quando lo Stato, per problemi di natura organizzativa, non è in grado di assicurare tale celerità, interviene come colpo di spugna la prescrizione, che libera il cittadino dal vincolo con la Giustizia.
Moltissimi cittadini, notabili o meno, si sono avvalsi della prescrizione per arrivare alla conclusione del loro iter processuale, a dimostrazione del fatto che la macchina della Giustizia non sempre è in grado di assicurare i tre gradi di giudizio nell’arco temporale previsto dalla decorrenza della prescrizione.
È, questa, un’anomalia a cui si è tentato di porre rimedio, ma non sempre con successo, per cui, nonostante i costi derivati, molti processi sono saltati – appunto – per l’intervento dei termini temporali della prescrizione.
Sovente, sono gli stessi avvocati che tentano di giungere a tale esito, usando tutte le malizie del loro mestiere, ma invero non se ne può fare loro una colpa, se l’Amministrazione della Giustizia è fatta in modo tale che non tutti i processi possano arrivare al loro più naturale compimento, comunque con una sentenza esplicita e definitiva di assoluzione o di colpevolezza.
Oggi, la prescrizione, in un contesto storico dove le spinte giustizialiste sono tuttora molto forti, è divenuta la cartina di tornasole di un dibattito che ha assunto, in entrambi i campi della disputa, una dimensione ideologizzata secondo una logica manichea che non dovrebbe essere, invece, quella predominante, a meno che non si voglia perdere di vista l’interesse legittimo del cittadino che contesta il proprio diritto ad una Giustizia giusta e celere.
I giudici contro gli avvocati, la Sinistra contro la Destra, i garantisti contro i giustizialisti: una divisione netta degli operatori del settore e delle forze politiche, che rischia solo di allontanare l’esito ultimo di un processo riformatore, giusto o sbagliato che sia, dalla cui riuscita sembra dipendere l’esistenza del Governo e della maggioranza che lo regge in Parlamento dallo scorso mese di agosto.
Forse, è possibile una mediazione in una materia che inerisce i diritti essenziali dei cittadini, senza voler scomodare i padri del diritto del Settecento milanese e napoletano?
Forse, l’ideologizzazione del dibattito allontana gli esiti della riforma?
O, forse, ancora una volta nel nostro Paese, intorno ai temi della Giustizia, si sta giocando una partita che va ben oltre il merito stesso della questione, come d’altronde fu ai tempi di Tangentopoli, quando si discusse della depenalizzazione del reato di finanziamento illecito ai partiti mentre scattavano le manette ai polsi dei baroni della Prima Repubblica?
Certo è che una maggiore serenità non potrebbe che fare bene agli attori del dibattito odierno, anche per non smarrire il senso della lezione di Beccaria e dei fratelli Verri, su cui si costruisce il senso ultimo dello spirito liberale dell’Occidente.