di Maria Rusolo
“Forse devo cancellare Lila da me come un disegno sulla lavagna, pensai, e fu, credo, la prima volta. Mi sentivo fragile, esposta a tutto, non potevo passare il mio tempo a inseguirla o a scoprire che lei mi inseguiva, e nell’ un caso e nell’ altro sentirmi da meno.”
Il tempo e lo spazio sono i veri protagonisti dei romanzi della Ferrante, che molti scoprono ora nella trasposizione televisiva, che porta sullo schermo le parole che fluide scorrono sulle pagine. Quanto contano le immagini per affezionarci ai personaggi, quanto contano per comprenderne a pieno il senso, quanto per dare un volto a figurine che si muovono veloci e che non saremmo riusciti a cogliere. Il mondo nei quattro libri della saga della misteriosa scrittrice è un mondo che sembra statico nel quartiere, dove tutto all’apparenza sembra immutabile ed immutato ed invece è pulsante e pieno di sfumature, a volte di difficile percezione.
E dice bene la mamma di Elena, che raggiunge da sola Pisa per curare la figlia, senza aver mai preso un treno ” nel quartiere sembra che il tempo non passi mai ed invece poi se ti guardi allo specchio vedi che il tempo è passato”. I personaggi subiscono il tempo o lo plasmano nella calura estiva e nell’aria pesante di una Napoli senza movimento? E’ qui la capacità dell’autrice di riuscire a porre il lettore nella difficile situazione di capire se è possibile sfuggire al fato, al destino, alla nascita, alla assenza di barriere protettive, di protezioni dalle cadute. Tutto sembra già scritto anche per Elena, che a Pisa cerca di riscattarsi, di esprimere se stessa, di trovare un nuovo posto al mondo, e che al cospetto del professore di fama all’università si sente dire che le toccherà insegnare, che in fondo anche il suo modo di parlare, la sua lingua rappresenta un limite, un confine insormontabile.
E lei sembra smarrita, persa, si sente inadeguata, convinta di non essere mai abbastanza, non intelligente, non capace; di aver imparato nozioni che le riempiono la testa, ma senza che questo le consenta davvero di essere qualcosa di altro, qualcosa di diverso, qualcosa che non sia parte integrante di quelle case ammassate una vicino all’altra, di quelle stanze piccole e scure, in cui le parole non sono mai piene di armonia, ma urlate, sbiascicate. Ed anche quando quel libro scritto di getto in soli venti giorni sembra prendere corpo aldilà del corpo, ha bisogno dell’amica, di Lila, come se a lei dovesse tutto, come se lei fosse la vera ragione per cui esiste, per cui si muove, per cui sa scrivere, leggere e parlare. Aliena ovunque, nel mondo in cui nasce, nel mondo in cui approda, travolta dagli eventi, e dagli uomini che entrano nella sua vita, come se per esistere avesse sempre bisogno di qualcuno che le desse la giusta dimensione del proprio valore. Gli uomini scivolano nelle pagine, con la loro violenza fisica, con il loro linguaggio rotondo e volgare, con la loro capacità di nutrirsi delle donne, con la loro innata vigliaccheria.
Passano, barcollano, naufragano, perdono. Non vincono mai. Non vincono contro il carattere ed il fuoco di Lila che incendia se stessa e che non riesce a terminare un percorso, un cammino, che non vince la sua rabbia, che non riesce ad incanalare il suo astio, il suo odio, la sua genialità. Ne diventa preda, come un Solaro qualunque e scappa per poi restare immobile. Ed il gesto che meglio ne esprime l’essenza è quello della favola scritta da bambina data alla fiamme, mentre Elena la guarda da lontano. Nino che appare e ricompare è che pure ha un ruolo, si appoggia alle donne che incontra, ma rimane dietro, dietro tutti, dietro Elena, dietro Lila, dietro la sua incapacità di ammettere che in fondo è come il padre che lo ha generato. Si io sono vicina ad Elena, alla sua continua discussione con se stessa, al suo cedere e scendere le scale ed attraversare i vicoli bui della esistenza, di emergere dalla nebbia, nonostante le avversità, di mordere lentamente, di amare senza amore, di vivere passioni soporifere, di reagire in silenzio, di osservare il mondo attraverso i grossi occhiali, di lasciarsi plasmare, ma rimanendo se stessa.
Naturalmente ciascuno coglie in un libro quello che le è più vicino, quello che sente più parte della propria natura, e la grandezza di un autore è quella di donare mille chiavi per aprire una porta sull’ignoto della scrittura, ciascuno può usare quella che meglio crede.
“Sai cos’è la plebe?”. “Sì, maestra”. Cos’era la plebe lo seppi in quel momento, e molto più chiaramente di quando anni prima la Oliviero me l’aveva chiesto. La plebe eravamo noi. La plebe era quel contendersi il cibo insieme al vino, quel litigare per chi veniva servito per primo e meglio, quel pavimento lurido su cui passavano e ripassavano i camerieri, quei brindisi sempre più volgari. La plebe era mia madre, che aveva bevuto e ora si lasciava andare con la schiena contro la spalla di mio padre, serio, e rideva a bocca spalancata per le allusioni sessuali del commerciante di metalli. Ridevano tutti, anche Lila, con l’aria di chi ha un ruolo e lo porta fino in fondo.“