di Angela Vitaliano
La prima volta che sono venuta da questa parte dell’acqua, in una primavera di molte primavere fa, mia cugina Patrizia mi aspettava all’aeroporto di Newark. Arrivai nel New Jersey, dunque, non a New York. Eppure, mentre ci avvicinavamo, la mia vicina di posto in aereo, alla quale devo parte del mio essere qui, mi disse di guardare dall’oblo’.
New York non era mai stata nella mia lista viaggi. Anzi. Praticavo attivamente quel patetico risentimento anti americano cosi diffuso in quella che fu la sinistra italiana. O parte di essa. New York era la citta’ dei cattivi, dei ricchi, dei capitalisti. E poi era brutta. Di certo era brutta: mica bella come le citta’ nostre piene di musei del 300 e chiese e colossei e pompei e pizze e mandolini? Brutta. Di certo.
Guardai dall’oblo’. E la vidi. E provai a odiarla come mi ero preparata a fare. Per essere un bravo soldatino sinistro.
Guardai quello skyline, le due Torri, l’Empire, il riflesso dell’acqua che la rendeva argentata e soprattutto vidi lei, Lady Liberty: il simbolo della liberta’ che non avevo mai conosciuto e che avrei, di li’ a poco, scoperto.
Salita in macchina con Patrizia, Pier Paolo e Mario, ci avviammo verso NY. La macchina usci’ dal tunnel e la luce cancello’ la stanchezza: non sapevo dove fossimo ma volevo scoprirlo. Scesi dall’auto, mia cugina mi disse di guardare in alto: eravamo sotto le Torri. Per me, che soffro di vertigini, sedere all’ultimo piano, con il naso schiacciato alla vetrata, tenendomi stretta al corrimano, fu una botta di adrenalina indescrivibile.
Mi innamorai li’. In un attimo. Senza ragioni o certezze. Come sempre quando ti innamori. L’amore, quello fatto anche di odio, di fatica, di delusioni, di incertezze, di solitudini e di immensita’ sarebbe arrivato dopo, passo dopo passo, nel passaggio dagli hotel di lusso allo studio infestato dai topi, nella parabola da turista a cittadina.
L’11 settembre lavoravo alla preparazione della Festa dell’Unita’ di Napoli. Alzai lo sguardo alla TV. E non capii. Qualcosa si fermo’ per sempre. Non il cuore, anzi. Non il pensiero, anzi. Si fermo’ la mia autodistruttiva volonta’ di provare a farcela in Italia. Di continuare a essere ferita e umiliata.
Il secondo aereo fu la determinazione a venire qui. A essere parte di tutto questo. Cercai Michael senza successo. Solo ore dopo, a piedi, riusci a tornare a casa, in NJ, da Midtown.
Per giorni e settimane i giornali e le TV parlarono della fine di NY. Loro parlavano e io vedevo la gente manifestare contro la guerra e abbracciarsi, i vigili del fuoco lavorare senza sosta, una comunita’ intera stringersi insieme per non arrendersi.
Tutti parlavano della citta’ morta e io vedevo la vita. Io vedevo la forza, la solidarieta’, l’amore.
L’11 settembre io decisi, senza saperlo, che questa sarebbe stata la mia citta’, perche’ avevo bisogno di solidarieta’, forza e resistenza.
New York non e’ una citta’ semplice. Ne’ da vivere ne’ da capire. Perche’ e’ talmente viva che dentro c’e’ tutto. Senza filtri. E noi siamo abituati a vivere in un mondo filtrato.
L’11 settembre New York fu dichiarata morta. Come in questi mesi. E invece New York vive anche per ricordare i 2977 morti (piu’ i first responders morti dopo per cancro) che ci lasciarono quel giorno e vivra’ per ricordare gli oltre 35mila morti di questi mesi. Vivra’ per ricordare e per rinascere, continuando a sfuggire a ogni filtro di chi la vuole descrivere, di chi pensa di averla compresa “fino in fondo”, di chi pensa di sapere come sara’ domani. Dimenticando che questa non e’ una citta’ per gli illusi, ma per i sognatori e conoscere la differenza, fa la differenza.
Ti amo New York. Per sempre. Ti amo