di Elio Goka
“Tutto invece è rimasto immutato…”
Franz Kafka, La tana
Una luna cantóra poggerà un’ombra di luce sopra il pallore di una natura agonizzante composta da un corpo esanime e i suoi vestiti in mezzo a un nugolo di macerie. E ancora durerà il rantolo di quella voce che avrà da dire quello che nessuno saprà sentire. Il terremoto dell’80 vibrava ancora la sua deviazione alla storia ed Enzo Moscato era appena uscito, anno 1982, con Scannasurice, pubblicato in Orfani veleni e al debutto nello stesso anno, per poi ripetersi due anni dopo a cura dell’altro “dioscuro”, l’Annibale Ruccello che, con altri autori, tra i quali lo stesso Moscato, avrebbe donato al teatro una nuova e rivoluzionaria scrittura.
Il terremoto aveva cambiato le cose e lo spettacolo pensato e scritto dal drammaturgo napoletano tirava fuori dalle viscere dei Quartieri Spagnoli un protagonista della diplomazia apologica. Lui – e lei – in dialogo coi topi. Una restituzione novellata e in forma di monologo in accordo narrativo di un doppio estratto dai racconti di Kafka, da una parte l’emblema del luogo-spazio, in Kafka La tana, e dall’altro il movimento spirituale di complessa identificazione, in Kafka Josephine la cantante e il popolo dei topi. Sia ben chiaro che in questo caso un potenziale riscontro non richiama un’ispirazione, ma più probabilmente una coincidenza, vista la portata universale dei segni presi in considerazione. “o non piuttosto che il popolo, nella sua saggezza, abbia collocato il canto di Josephine così in alto proprio perché in tal modo non potesse andar perduto?”
Franz Kafka, Josephine la cantante e il popolo dei topi
A proposito di universalità, il femminiello protagonista di Scannasurice potrebbe aspirare a un intendimento più esteso e meritorio (la sua sensibilità tocca vette molto alte). La sua è un’androginia che contiene l’essere umano oltre il genere, in detenzione dei tratti maschili e femminili senza esternazione di conflittualità. Un intero umano che ricompone la mela del Simposio. Tuttavia, senza soddisfazione d’amore. L’essere qualcosa non vuol dire goderne il potere. E Moscato ce lo ricorda.
Se in Scannasurice sibilano i racconti citati, la scrittura dell’autore non risparmia altre rievocazioni letterarie che sono ricorrenti nell’opera colta di Moscato. La sua scrittura in forma di suite eroga un fluido affidato a commistioni linguistiche – il napoletano parlato in Moscato è la lingua dialettale del metropolitanesimo partenopeo – e a evasioni sistematicamente recuperate e rinsaldate a dispetto del rischio apparente di smarrirne il filo conduttore. Quello di Scannasurice (e non solo) è in nylon sottilissimo.
Nel monologo ambientato nei Quartieri Spagnoli il femminiello muta in apparizione di una madonna sfinge che da afflitta oracola i turbamenti e le rassegnazioni che fungono da fase preparatoria all’epilogo finale. Il tema della madonna (quasi un’Addolorata) in possesso del “curaro” (il veleno per i ratti) e ossessionata dal tumulto invisibile dei topi, contiene ferocia, invocazione della giustizia, affrancamento e speranza di liberazione da uno stato di oppressione che si manifesta metafisicamente in una pietās per una condanna a un peccato originale della modernità.
“le pupille bruciate da un muco lattiginoso;
la follia di un’anima morente
era scritta su quel volto”
Edgar Lee Masters, Carl Hamblin
La dimensione di Moscato resta quindi astorica, pur non rifuggendo gli eventi. Nella sua scrittura i fatti fermentano e riaffiorano ogniqualvolta da uno spiraglio riluce qualcosa che rievochi gli accadimenti che scandiscono le tappe del racconto. E qui echeggia l’assenza dell’effetto di quell’avvenimento. L’assenza di concretezza (intesa in termini filosofici, ovvero l’effetto sulla realtà) conferisce il distacco astorico. In termini più immediati, le sue figure dicono, confessano, ma non mostrano le ferite. Seppure s’intravedono, un’azione fulminea e risolutrice giunge a secretarle (in questo il soccorso dell’interpretazione attoriale diventa determinante).
Lo scannatopi di Enzo Moscato è una macchina, un impianto, una modalità dell’irreversibile. Lo scannasurice è il groviglio di lame e di vapori velenosi dentro la nube nera che aleggia sopra le vicende di chi ne sarà inevitabilmente provato. E il tema del luogo non è secondario. Lo spazio si presenta e il luogo lo nasconde. Questa è l’ambigua struttura in cui il femminiello è condannato ad apparire e i topi a dileguarsi. La condanna è annunciata dai primordi di un processo ancestrale. Il protagonista è sottoposto allo scannasurice, definito da Moscato stesso come un “Misteriosofico-plebeo poema sulla mia discesa agli Inferi di Napoli”.
Sarebbe un errore ridurre lo Scannasurice a un’allegoria collettiva (si potrebbe addirittura escluderlo). In realtà, il racconto del femminiello svela, durante il suo costante aggirarsi labirintico e privo di destinazione, una struggente e dolorante somma di rimembranze che potrebbero appartenergli e che, sia pur attribuite a personaggi non visti e soltanto narrati, potrebbero avere assunto la funzione vicaria in deroga al pudico e amaro nascondiglio di chi solo con la morte conosce il coraggio della confessione. La maternità, i conflitti e le sventure dello svezzamento, le bramosie d’amore, la sollecitazione al soddisfacimento dei desideri dei sensi e il riconoscimento sono gli elementi del ‘mancato’ non casualmente declinato dalle fasi del monologo in cui ogni affaccio è la finestra d’ognuno, in un casellario-tugurio delle assenze da cui gronda la sofferenza di fondo del femminiello, la cui spiritualità è l’epicentro delle singole manifestazioni.
Si potrebbe, quindi, smettere per un momento l’interpretazione collettivista di Scannasurice per chiedersi se il monologo, interpretato da Imma Villa anche in questa ipotetica direzione, non sia la raffigurazione dolcissima di tutto il privato e l’ingiusto addosso all’animo del protagonista.
“Chi so’? Stong ‘arinto? Stong ‘afora? Nun moro, no… ma neppure campo comm’apprimme: ‘a vista, ‘e mmane, ‘e rrecchie… Tutte cose se n’è ghiute… e pure ‘a voce… Ancora ‘nu poco e poi sommergerà, affonderà pur’essa” Da Scannasurice
Carlo Cerciello dev’essersi aggirato tra quelle macerie di quella natura morente tendendo l’orecchio di quella voce rantolante. La regia restituisce una rappresentazione in cui vengono raccolti i segni di quella Napoli che dentro e fuori dal tempo confligge con le incursioni di quella modernità che nessuno sa se per i quartieri e i vicoli rappresenti il prima o il dopo, l’origine o l’effetto. I cunicoli concepiti e realizzati dalle scenografie di Roberto Crea contribuiscono al movimento di scena immaginato dalla regia (la sala del teatro Elicantropo, fondato dallo stesso Carlo Cerciello, si presta con particolare suggestione). Il femminiello è ordinato a un convitto di creature in armonia con il saliscendi del protagonista condannato a serpeggiare in un luogo cimiteriale in cui lo spazio è frazionato in loculi che affacciano su un esterno interdetto.
Le musiche di repertorio sottolineano lo stato d’animo del protagonista tanto quanto la sua parola e gli spazi percorsi. Il sottofondo musicale della Madama Butterfly è il ricalco del ferimento sentimentale del femminiello, mentre La bohème è il monito in uno spazio così angusto (una parte dell’opera di Puccini si svolge in una soffitta) del frangersi di un idillio mai suggellato. Il disegno luci di Cesare Accetta, le musiche originali di Paolo Coletta e gli effetti sonori di Hubert Westkemper completano il quadro audiovisivo che per Cerciello rappresenta la visione segnica di un indizio germe che già porta agli occhi dello spettatore lo sviluppo di uno dei concetti di fondo del testo, in funzione di quel richiamo della Napoli dei Quartieri, osservati e rappresentati come un labirinto asfissiante e sovraffollato.
In esso si muove un’Imma Villa che pare una predestinata all’interpretazione del protagonista. Le sue variazioni in seno ai molteplici volti che si alternano durante il monologo producono una sonorità della parola e dello spirito indispensabile per poter portare in scena la scrittura di Enzo Moscato. La vestizione del femminiello è la liturgia dello svelamento della sua coscienza. L’onirico recondito, le superstizioni e le confessioni cantano il mistero doloroso di un femminiello che anche grazie alla recitazione dell’interprete assume il suo significato svuotato e totale necessario all’universalità della sua funzione. Imma Villa incarna ferocemente e teneramente l’esperienza diretta della mimesi eterna di un popolo “che non ha mai avuto una bandiera” e che è allegoria di quell’inganno e distrazione dalla coscienza per cui molto spesso quello che rifiutiamo coincide con quello che siamo. E il femminiello? Per lui il finale proprio del racconto di Kafka, Josephine la cantante e il popolo dei topi pare riservargli (e riservarci) un monito testamentario:
“Può darsi perciò che non ne sentiremo molto la mancanza, mentre Giuseppina, liberata dagli affanni terreni, i quali sono riserbati a tutti gli eletti, si perderà lietamente nella innumerevole moltitudine degli eroi di nostra gente, e presto, dato che noi non registriamo la storia, in una redenzione superiore sarà dimenticata come tutti i suoi fratelli”.
[Scannasurice è al Teatro Elicantropo fino al 18 ottobre]