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di Gianluca Spera
“Voglio diventare l’idolo dei ragazzi poveri di Napoli, perché loro sono come ero io a Buenos Aires”.
Così si presentò Diego al San Paolo in quel torrido pomeriggio del luglio ’84. Maradona e Napoli si piacquero da subito, erano fin troppo simili per non andare d’accordo. Istrionici, vulcanici, rivoluzionari, latini con quella punta di sfrontatezza unita a un’innata vocazione alla malinconia.
Il loro rapporto era verace, esageratamente viscerale, simbiotico, basato su una reciproca complicità che amplificava tutto fino al parossismo, sia i tronfi sportivi che i tonfi personali. Probabilmente, Maradona non sarebbe diventato il più grande se non fosse stato il trascinatore di un club che, prima e dopo di lui, non ha vinto praticamente nulla di importante.
Il calcio di Diego assomigliava a un manifesto politico: era lo strumento per la riscossa dei popoli oppressi. E a Napoli trovò l’humus adatto per diffondere il Verbo, venerato com’era dalla folla che pendeva dal suo piede sinistro catartico e vendicatore, poetico e castigatore, celestiale e diabolico.
I sue sette anni partenopei furono l’equivalente della Summer of Love californiana, una tournée permanente, durante i quali si sovvertirono le gerarchie e Davide sconfisse Golia a ripetizione.
Maradona approdò in una squadra da zona retrocessione e la condusse verso la vittoria di due campionati (gli unici due della storia azzurra), una coppa Uefa, una coppa Italia e una supercoppa italiana (con il rimpianto del beffardo e indecifrabile campionato 87/88 e l’illusione della Coppa Campioni svanita in una fredda serata moscovita quando ormai la magia maradoniana si stava dissolvendo).
Diego seppe affrancare la città dai complessi di inferiorità sportivi, restituirle la dignità vilipesa dal razzismo che le veniva somministrato ogni domenica a dosi massicce, fu capace di far vacillare anche il legame dei napoletani con la patria con quelle frasi pronunciate ad arte prima della semifinale mondiale che poi provocò uno psicodramma nazionale per l’esito della contesa.
Il rigore segnato a Zenga fu l’inizio della fine: le bandiere argentine bruciate nottetempo a Trigoria, i fischi dell’Olimpico durante l’inno che provocarono la rabbiosa reazione di Diego, le espulsioni sospette, il rigore inesistente che regalò la coppa ai tedeschi, il rancore crescente e martellante, il rapporto sempre più complicato con l’Italia e con l’affetto soffocante di Napoli, i capricci prima della partita a Mosca, l’eliminazione bruciante, Napoli-Bari, l’anti doping, l’umiliante squalifica, la fuga in Argentina.
Tutto sommato, nemmeno l’entusiasmante epopea napoletana ha avuto un lieto fine per Maradona. Ci mise quattro anni per risollevarsi. Si presentò al mondiale americano tirato a lucido. Segnò, urlò, poi risultò di nuovo positivo e mandato a casa con il marchio d’infamia stampato in fronte come una lettera scarlatta.
Nel 2001, prima della partita d’addio alla Bombonera, disse: “Io sono sporco ma il calcio è pulito”. Forse è stata l’unica volta in cui non è stato realmente sincero. O più probabilmente, aveva prevalso ancora quell’istinto autodistruttivo che lo spingeva ad accollarsi anche le responsabilità altrui.