di Christian Sanna
La sensibilità è quella ferita che brucia al primo soffio di niente. Duetta col dolore, supportati da un coro di stelle cadenti che sono desideri infranti. È canto intrecciato fra soprano e mezzo soprano; è Duetto dei fiori fra Lakmè e la serva Mallika, mentre si accingono a raggiungere la riva del fiume, in cerca di fiori da raccogliere.
Lasciarsi abitare dalla sensibilità significa condannarsi per sempre alla croce e convivere, ogni giorno, con l’archetto di un violino ficcato nel fianco. Vuol dire interrogare la vita e attendersi una risposta, proprio come, attraverso la poesia ed il pensiero filosofico, cercò di fare Montale “nei miei versi della maturità ho tentato di sperare, di battere al muro, di vedere ciò che poteva esserci dall’altra parte della parete, convinto che la vita ha un significato che ci sfugge. Ho bussato disperatamente come uno che attende una risposta” .
Quando c’è la sensibilità, il mondo appare rovesciato, cadono i muri e gli ultimi diventano i puri, quelli che ti salvano dal fango per avvicinarti al punto di vista di Dio. L’intelligenza di Fabrizio lo ha portato dapprima ad accettare questa sensibilità, che fortunatamente non è evaporata in una nuvola rossa/in una delle molte feritoie della notte, poi in seconda battuta a crearne un valore che fosse credibile, mediante il magistrale uso di parole ed accordi, a vantaggio di una tutela nei confronti di chi è sempre stato offeso, umiliato ed emarginato.
I genitori cercarono di avviarlo allo studio del violino, strumento che inchioda ad una ferrea disciplina, ma l’approccio con la musica fu problematico. L’imposizione è destinata a fallire con chi già da giovane dimostra di avere affinità con la ribellione e Fabrizio lasciava intravedere sprazzi di ciò che sarebbe diventato: un anarchico individualista, come amava definirsi. La scintilla scoccò con l’ascolto di un disco di Georges Brassens, del quale in futuro tradurrà alcune canzoni, rendendole ancora più belle. Di famiglia borghese, con un padre dirigente d’azienda, politico, docente ed un fratello intelligente e studioso, De Andrè crebbe in un ambiente raffinato e culturalmente stimolante, ma anche “pesante” a causa dei continui confronti con la bravura di un fratello studente modello e di un padre brillante, colto e stimato da tutti.
Il desiderio di dimostrare di essere all’altezza fu per molto tempo un chiodo fisso e la voracità con cui leggeva opere classiche ed approfondiva autori quali Bakunin e Stirner, incise notevolmente sulla sua formazione umana e culturale. Il ragazzo che vedeva il sole nei carruggi di Genova, diventò nel tempo, l’artista sublime che portò la letteratura nella musica. Le influenze della musica medievale e rinascimentale troveranno sbocco in alcuni suoi brani di inzio carriera e subito vengono in mente titoli quali Fila la lana, Carlo Martello, Il Testamento. Il ciuffo che planava sulla fronte fino a coprire parzialmente la palpebra leggermente calante dell’occhio sinistro, ancora oggi è l’immagine del Grande Poeta, difensore dei più deboli e degli oppressi, colui che attraverso la musica, seppe ridare loro quella dignità che gli spettava di diritto, proteggendoli da una società ipocrita e classista, superficiale e perbenista e valorizzandone la spontaneità per consegnare alla morte una goccia di splendore di umanità e verità.
Per una Smisurata Preghiera, ancora attuale oggi come allora. La genialità di Faber risiedeva in quella sensibilità così acuta da permettergli di rivisitare in poesia e quindi in canzone un fatto di cronaca ripreso da un giornale e la magia del costruttore di parole che è insieme ricercatore di spiritualità, consisteva nel prendere spunto da un episodio triste e cruento, nel tentativo di ridisegnare la storia, addolcendone il finale e quindi la morte come nel caso di Marinella, con l’immissione di contenuti sentimentali ed immagini floreali.
Questo desiderio di restituire dignità ai personaggi delle sue canzoni, spesso sconfitti ed emarginati nella vita, figura in quasi tutto il repertorio del cantautore ligure, basti pensare con quanta nobiltà di parole descrive la prostituta di Via del Campo, la graziosa dagli occhi grandi color di foglia che se di amarla ti vien la voglia basta prenderla per la mano e qui rovescia completamente i canoni del tempo, all’epoca chi faceva questo mestiere era giudicata malissimo. Fabrizio con il testo di questa canzone spezzò i luoghi comuni, descrivendo con garbo la ragazza, immaginando la nascita di fiori lungo il suo cammino, come a rimarcare un messaggio di speranza nel futuro, regalandole quasi un’immagine di purezza. Così ritroviamo un illuso, uno che si è innamorato a tal punto da pregarla di maritare e da accompagnarla con lo sguardo mentre sale le scale fino a quando il balcone ha chiuso.
De Andrè è stato un uomo speciale, uno con una capacità d’amare superiore e lo dimostrò più volte, una su tutte, quando dopo un sequestro (condiviso con Dori) in Sardegna ( isola che considerava il paradiso terrestre) durato mesi, nel momento della liberazione riuscì a trovare le parole giuste e a perdonare i carcerieri. Un uomo speciale e quindi complesso, perchè i libri letti e le poesie scritte non guariscono le ferite e l’imbarazzo di stare al mondo,ma questa immagine da poeta irrequieto non deve far passare in secondo piano il fatto che avesse un carattere anche divertente, spiritoso, socievole. De Andrè era un uomo che si faceva amare, nonostante le “fragilità”, la mente sempre in movimento, la voglia di interrogare la vita e in qualche modo l’ansia di riscattare i meno fortunati. Dori Ghezzi è stata l’amore della sua vita, una delle storie sentimentali più belle ed intense del secolo scorso.
E se Fabrizio che prometteva già bene perchè aveva un talento smisurato è diventato il Grande De Andrè è anche merito di una donna ( grandissima artista) che ha saputo stargli accanto, assecondandone la vena poetica e proteggendolo dalle turbolenze di un carattere meravigliosamente profondo e “tormentato”. Agli inzi della carriera per una questione di timidezza e forse di insicurezza di De Andrè si riusciva ad ascoltarne solo la voce, mettendo un disco. Non amava farsi vedere ed esibirsi in pubblico. Si sbloccò nel 1975 nel suo primo concerto dal vivo alla Bussola, mitico locale, al tempo frequentato dalle dinastie dei Moratti e degli Agnelli. Fu un successo clamoroso. E quando attaccò con La Canzone dell’amore perduto fu sommerso dagli applausi. E ascoltando questa canzone in sottofondo, mi accingo a conludere questo omaggio a Fabrizio De Andrè che non fu un menestrello, ma un Grande Poeta. Forse, il più grande di tutti.