di Fabio Buffa
Cinque anni fa ci lasciò uno dei simboli più popolari della musica internazionale: nella propria abitazione di Chanhassen, nel Minnesota, morì Prince, tra gli artisti più influenti e carismatici degli ultimi trent’anni.
Era infatti il 21 aprile del 2016 quando questo mito del palco fu trovato nell’ascensore di un palazzo, senza vita, a causa di un’overdose di un potente antidolorifico.
Prince fu il primo cantante a vendere i propri lavori attraverso internet, quando il web rappresentava ancora un mondo sconosciuto a molti. Fascino, mistero, trasgressione e una bravura artistica straordinaria hanno reso Prince (al secolo Prince Roger Nelson) un’icona intramontabile capace di incarnare in un solo corpo il ruolo di cantautore, compositore, strumentista, produttore discografico, attore e sceneggiatore. Il mistero che ha avvolto la vita di Prince si è presentato anche in occasione della morte: infatti sono diverse le versioni sul suo decesso, ufficialmente causato dall’aggravarsi di uno stato influenzale, anche se alcune fonti parlano dei postumi di un’overdose di droghe. Prince nacque a Minneapolis il 7 giugno del 1958.
Giovanissimo iniziò a suonare, influenzato anche dal padre, leader della band “Prince Rogers Trio”. A soli vent’anni la casa di produzione Warner Bros gli permette di prodursi da solo l’album dal titolo “For you”. Ciò che convince i dirigenti della WB è la capacità di Prince di suonare più strumenti, al punto che molti addetti ai lavori parlarono di lui come l’erede naturale di Stevie Wonder. Nel 1984 Prince dimostra di essere un artista a trecentosessanta gradi, primeggiando anche come attore. Esce infatti “Purple rain”, un film che farà costume in quegli anni. La canzone che regala il nome alla pellicola sbanca come singolo, al pari dei migliori brani dei Beatles. Il film vince l’Oscar come migliore colonna sonora, e il brano “When doves cry”, inserito tra le canzoni del lavoro cinematografico, ottiene il Golden Globe. Il gruppo che supporta Prince nei concerti sono “The Revolution”, che diventeranno complici del grande successo di questo artista.
In pochi mesi, proprio grazie a “Purple rain”, il cantante di Minneapolis diventa un fenomeno inimitabile della musica made in Usa: la voce, il volto, le movenze, hanno qualcosa di maschile e femminile insieme, che lo rende misterioso e accattivante, in più ci sono i suoi tratti demoniaci e arroganti, che fanno impazzire ragazzi e ragazze. Non solo: musicalmente Prince fonde insieme funky, rhytm’n’blues, boogie e rock, proponendo suoni mai sentiti. Un altro album di successo è “Around the world in a day”, che offre la vena dedita al cambiamento e all’innovazione di questo artista.
Cinque anni prima di morire il grande trombettista Miles Davis non solo elogia Prince, ma lo paragona addirittura a Duke Ellington. Un “marchio” che oltre a rinvigorire il già forte estro del nostro musicista, gli regala popolarità anche tra gli appassionati di musica più snob e ricercati. La prima volta in Italia per Prince risale al 1987, con una serie di concerti a Milano. Ad inizio degli anni novanta esce un disco che viene tenuto nel cassetto per qualche tempo: il titolo è “The black album” con ritmi ballabili e orecchiabili. Segue “Lovesesxy”, che di fatto chiude il momento più elevato sotto il profilo della popolarità dell’artista. Nel 1988 Prince viene per la seconda volta in Italia.
Il 1989 è l’anno della collaborazione con Madonna, in “Like a Prayer”, mentre nel 1990 esce il suo secondo film, “Graffiti Bridge”, ma l’illusione di riproporre il successo di “Purple rain” svanisce in breve tempo, visto che questo lavoro cinematografico sarà un flop. Nello stesso anno torna nel nostro paese, ma non rispetta importanti impegni contrattuali, lasciando dietro di sé una scia di malcontento. In Prince c’è la voglia di essere artisticamente sempre più autonomo, così nascono “tira e molla” con la Warner Bros, che comunque cercherà sempre di accontentare il proprio talento.
Anche perché nel 1992 vince il premio come artista più influente dell’ultimo decennio.
Nel 1994 esce “Come”, in cui Prince si firma Tafkap, ovvero The Artist Fomerly Known as Prince (l’artista conosciuto come Prince).
Esce poi “Love Symbol Album”, seguito da “Chaos and Disorder”, che rappresenta il divorzio dalla Warner Bros. Gli anni duemila sono caratterizzati dalla pubblicazione di “The Rainbow Children”, autoprodotto, in cui gli unici che suonano sono Prince stesso e il batterista John Blackwell. E’ il periodo in cui sembra voler uscire dal ruolo di artista trasgressivo e inquietante, per lasciar spazio ad un immagine più morbida. Il 2004 è il ventennale di “Purple Rain”, così Prince sfrutta l’anniversario per uscire con “Musicology”, con la genialata di vendere i biglietti dei concerti con un aumento di 10 dollari allegando il disco stesso. Altro lavoro di Prince anni duemila è “3121”, ovvero il suo ventottesimo album.
Ma quali sono i migliori album di Prince? Per un artista poliedrico e sempre alla ricerca del nuovo come lui è assai difficile stilare una “classifica”, ma veri e propri capolavori musicali possiamo ritrovarli in “1999”, dell’’82, “Purple Rain” del 1984 e “Sign o’ the Times”, del 1987.
Come abbiamo detto Prince è diventato un personaggio carismatico grazie anche ai fatti di costume che lo coinvolsero: le sue tormentate storie sentimentali, il suo essere schivo e la scarsa propensione a parlare di sé, lo hanno fatto diventare una leggenda ancor prima di lasciarci.
Anche il titolo del successo del 1984, “Purple rain”, fu qualcosa di misterioso: il concetto di pioggia viola è stato più volte preso in esame dagli addetti ai lavori, ma senza trovare una risposta precisa. Non solo, al museo dell’arte di Los Angeles, nelle scorse settimane è stata realizzata una camera della pioggia (“Rain room”), in cui scendeva acqua che, con suggestivi effetti cromatici, risultava viola, proprio in onore del lavoro di Prince di trentadue anni fa.
Un artista che a sette anni componeva già canzoni suonando il pianoforte del padre, che a tredici fondò la sua prima band e che ha scritto ben 600 brani (più dei Beatles), non poteva che diventare un mito. E lo sarà per sempre.