di Anna Iaccarino
Circa tre anni fa ho provato a dare corpo a una visione che mi accompagnava come un amico fedele tenuto nascosto. Alzandomi da quella sedia che mi teneva inchiodata tra rese e fughe, ho trovato il coraggio di allungare la mano per accendere quel vecchio lume, lasciato lì in disuso, sul comodino, perché tornasse ad emanare la luce calda dei sogni.
Quell’arcobaleno di mille chiaroscuri di un tempo vissuto, che ho spogliato ed iniziato a rendere pagine di inchiostro, immergendomi senza scudi di atterraggio nella scrittura. Nessuna necessità di dimostrare qualcosa, nessuna illusione di essere qualcuno, alcuna voglia di ritagliarmi visibilità, alcun interesse a intessere rapporti di sistema o di ritorno economico.
Semplicemente per liberare quella parte di me che trovava il coraggio di valicare il sentiero di una nuova idea di bellezza. Esserci, come riporto in un mio libro, attraverso quel mondo di emozioni che avevo sempre custodito con pudore nella quiete del mio sentire. E che adesso a mani nude provavo a rendere pelle, calore, odore. A trasferire attraverso il mondo della parola scritta, con un narrato evocativo di forza e fragilità nel velato desiderio di generarne sigillo di incontro con una umanità altra. Di cimentarne quel non detto che chiede voce e ne unisce anime in viaggio, nidi lontani, cammini, storie. È cominciato così, tra timore e disagio, e in emergenza d’amore.
Alla fine è stato il viottolo che ha aperto il sentiero a un nuovo tempo di me, all’incontro con quel dì insperato che mi aiutasse a liberarmi dalla gabbia di una struttura mentale, orami diventata tale.
A vincere il concetto di condizionamento sociale, spingendo al superamento delle sovrastrutture che ne oscurano la scelta di liberazione.
Si, perché la scrittura è liberare un’intimità, è spezzare catene, è togliere un velo, è liberare nidi per nuovi germogli, nuovi approdi.
Ma chi e cosa aveva trattenuto, impedito, tale darmi, tale essenza, tale voglia di essere semplicemente me? Non ero mai riuscita a darmi una risposta, o piuttosto non avevo mai voluto che questo accadesse. L’imprevedibile, anche di una verità salvifica, mi aveva sempre spaventata.
Temevo di non saperne reggere lo scoprire improvviso, il controllo. Il non indagare mi dava tranquillità, quiete, mi proteggeva dal dover prendere conoscenza di una realtà e dal peso di doverne affrontare la scoperta.
Poi la vita, che non aspetta e a un certo punto accelera i tempi, ti mette di fronte all’ora X e allora succede quel qualcosa che sventra e libera le paure. O meglio, arriva quel limite oltre il quale o si supera o si rimane mancanti di sé, per sempre.
Ti fermi, respiri forte, alzi gli occhi e dai un nome al nemico invisibile, apparentemente innocuo, ma subdolo e penetrante come una punta a spillo: l’ansia da condizionamento del giudizio altrui.
Uno status che diventa una condizione mentale, un freno sociale, un’emotività in allerta.
Tante, troppe volte, siamo preda del giudizio, pensiero, del parlare d’altri, spesso gratuito e talvolta, pur se non sempre intenzionale, motivo di destabilizzazione e di indebolimento identitario.
Un agire che al momento sembra non lasciare taccia, ma che poi può diventare un mattone traballante di una costruzione florida, trasformandola da bellissimo fiore delicato in un’anima sguarnita.
Succede, ed è molto più diffuso di quanto si pensi. Accade e spesso si presenta in maniera latente, diventando padrone di noi, del nostro volere, potere. Inconsapevoli e ostaggi di una trappola invisibile che frena, condiziona, sospende, ci rende transito in attesa di un tempo, lontano da noi.
Se tutto questo è sempre esistito, oggi la rete, ne ha amplificato motori, megafoni, follia, esasperazione, fino a diventare spesso un volano di violenza, insulti, condanne, intolleranza sociale. Un gioco al massacro da cui non si salva nessuno, a meno che non si decida di viverla con riserva, ai margini di un confronto, rinunciando alla libertà di un contraddittorio o di una analisi autonoma.
Ma questo significa, mistificare chi siamo, cosa diciamo, cosa fare di noi. E allora, che senso ha?
Uscire dal “guscio” oggi è complicato, nell’era dei social si rischia di rimanere schiacciati dalla non cultura, dalla spersonalizzazione, dalla voglia di rappresentare ciò che non si è, perché è questo che fa tendenza. Urlare fuori da sé in attesa di sé.
Ma un’altra strada per viverli e non subirli, i social, deve esistere. La sfida è proprio quella di proporsi per ciò che si pensa, affermare identità, personalità, idee condivise e ragionamenti proiettati su un’oggettività di riscontri. Questa modalità fa selezione, quella inclusiva, aggregante, e crea distanza da quella prevaricatrice, che si fa spazio in quel “vuoto parolaio” che la maggioranza vorrebbe indistinto e somigliante al ribasso. Utopia? Intanto fa bene immaginarlo.