di Maria Rusolo
“Ho imparato a rispettare le idee altrui, a capire prima di discutere, a discutere prima di condannare.”
Quale il limite per il rispetto della altrui opinione, e fino a dove si può spingere un Politico nel controllo capillare delle attività culturali che si svolgano nel territorio in cui amministra? La domanda ha un senso preciso e non è un vuoto esercizio di retorica, di questi tempi poi si potrebbero chiamare alla memoria ben altri avvenimenti storici, che sembrano lontani nel tempo e nello spazio, ma che invece appaiono sempre dietro l’angolo, con una particolarità, oggi si fa spallucce, se ne parla per qualche giorno, poi tutto sparisce nella nebbia della capacità di macinare e masticare le notizie, o nella necessità di avere altri argomenti di cui discutere.
Durante il ventennio veniva chiesto agli intellettuali di essere fedeli alla autorità del Capo, di promuovere la diffusione dei principi del fascismo e di convincere la massa che quella ideologia significava benessere e progresso. Sappiamo bene, o dovremmo sapere come sia andata a finire la storia, ma ahimè le derive sono sempre possibili, c’è qualcuno che si fa portavoce oggi, sotto la coltre di una finta democrazia, di una logica identica a quella.
La cultura non deve scalfire il potere costituito, la cultura non deve spingere alla riflessione e non deve in alcun modo incrementare il pensiero libero e quindi, la critica. La cultura diventa, anzi sempre più spesso a queste latitudini è, senza timore di smentita, lo strumento attraverso cui giocarsi le campagne elettorali, ed alimentare la clientela. Eh si amici miei, altro che Paese di intellettuali, di poeti, scrittori, e del bel canto, qui sulla bellezza, sul pensiero unico si giocano le carriere politiche.
Ed allora che fai piazzi un po’ di fondi, spesso senza nessuna reale progettualità, li distribuisci di qua e di là agli enti amici ed organizzi un po’ di zumpapero zumpapà, con la scusa magari che così sollevi il turismo da amministratore illuminato. Niente strategia, niente visione, niente cura dei dettagli, e si susseguono i nomi degli amici a cui viene concesso il posto in qualche Cda, più come regalo alla obbedienza dimostrata in qualche campagna elettorale che come corretta valutazione dei meriti e delle competenze.
Se si facesse un esame serio di quanto si è speso in questi anni in opere culturali per il sollazzo di qualche Sovrano o despota ci sarebbe davvero da prendersi a sberle, per come riusciamo a disperdere l’oro che abbiamo sotto i piedi e che riusciamo a trasformare in letame. Un letame maleodorante che serve ad arricchire pochi e ad illudere il popolo che si stiano facendo grandi eventi per il progresso umano. Sagre e concertoni in piazza senza ne capo ne coda, ed eventi di spessore, sempre con gli stessi nomi per i pochi eletti che ricevono una poltrona in prima fila.
Già le immagino le considerazioni dei fan del capo, che mi definiranno livorosa e rosicona. Lasciatemi sorridere, perché io il sistema culturale lo conosco come le mie tasche, e di politica ne ho fatta tanta in questi anni, che se avessi accettato di stare in un angolo ” zitta e buona” avrei avuto molto, anzi moltissimo, ma ho deciso di non aderire ad un manifesto del pensiero unico, ho deciso di sottrarmi sempre alle imposizioni, perché come diceva Croce bisogna in ogni tempo difendere l’autonomia della cultura dalla politica.
Guardate cosa accade in Europa, commissione di tecnici che nominano i curatori ed i responsabili di grandi istituzioni teatrali e di musei, nessuna intromissione, ma solo la necessità di raggiungere risultati e di valorizzare un patrimonio materiale ed immateriale. Ed allora dovrebbe suscitare disprezzo generalizzato in ogni schieramento la notizia, che in un festival estivo in una location come Ravello, qualcuno pensi di creare liste di ospiti graditi o meno al capo, ed è ignobile chi difende questo modo di agire sostenendo che in un evento caratterizzato da musica e spettacolo, non ci possa essere spazio per la riflessione, per il racconto di uno scrittore, di cui si possono condividere o meno le idee, ma che ha tutto il diritto di parlare e di mostrare la propria visione del mondo.
Bene ha fatto Scurati, che di uomini di regime si è occupato anima e corpo a dire ” io non ci sto”, a non lasciarsi trattare da burattino, a non lasciare che la cultura, che significa apertura senza nessun limite e confine, fosse calpestata in silenzio e con una piccola scrollatina di spalle o con una strizzata d’occhio. Questo episodio ha solo raggiunto gli onori della cronaca, ma non è un evento isolato, ma anzi un segno tangibile di quanto fragile sia la democrazia in questi nostri tempi, di come i cittadini siano distratti, e di come ogni corte abbia i suoi giullari a cui riconoscere benefit e ricchezza. E mi sarei aspettata una reazione allargata, da parte di tutti gli intellettuali del Paese, da parte di tutti quelli che a quel festival hanno aderito come ospiti, perché evidentemente la storia non ha insegnato nulla, se non si comprende che i regimi non si costruiscono con azioni violente ma nel silenzio servile delle masse.
Forse dovrei rassegnarmi al fatto che nel nostro Paese i pensatori e gli uomini di cultura siano ormai colpiti dalla sindrome del ” sonno della ragione”, ed abbiano dimenticato che da essa si generano mostri difficili da uccidere. Mi permetto di dire che oggi non occorre una politica culturale, ma una cultura della politica, prima che davvero sia troppo tardi.
Vi lascio con una riflessione di Norberto Bobbio, quanto mai attuale, fateci quello che volete:
Chi entra in un labirinto sa che esiste una via d’uscita, ma non sa quale delle molte vie che gli si aprono innanzi di volta in volta vi conduca. Procede a tentoni. Quando trova una via bloccata torna indietro e ne prende un’altra. Talora la via che sembra più facile non è la più giusta; talora, quando crede di essere più vicino alla meta, ne è più lontano, e basta un passo falso per tornare al punto di partenza. Bisogna avere molta pazienza, non lasciarsi mai illudere dalle apparenze, fare, come si dice, un passo per volta, e di fronte ai bivi, quando non si è in grado di calcolare la ragione della scelta, ma si è costretti a rischiare, essere sempre pronti a tornare indietro. […] non ci si butti mai a capofitto nell’azione, che non si subisca passivamente la situazione, che si coordinino le azioni, che si facciano scelte ragionate, che ci si propongano, a titolo d’ipotesi, mete intermedie, salvo a correggere l’itinerario durante il percorso, ad adattare i mezzi al fine, a riconoscere le vie sbagliate e ad abbandonarle una volta riconosciute.