di Pasquale Di Fenzo
Noi napoletani abbiamo il DNA della polemica insito nel sangue. Litighiamo su tutto. Riusciamo a dividerci anche sul calcio, pur essendo l’unica metropoli al mondo che ha una sola squadra. Siamo molto meno polemici con interisti, milanisti e romanisti (gli juventini manco li consideriamo), che tra filo-aureliani e anti-aureliani o tra i fautori di Ancelotti e quelli che rimpiangono ancora Benitez.
Tra chi ha dimenticato Napoli-Verona e quelli per i quali resterà una macchia indelebile, a imperitura memoria, e per molti versi inspiegabile, nella storia del calcio azzurro. Riusciamo a dividerci pure sulla nostra lingua. Molti sostengono che l’articolo indeterminativo “uno/una” vada scritto “nu/na” senza il segno di aferesi per la U iniziale.
Quando nel 1964 Domenico Modugno, in coppia con Ornella Vanoni, vinse il Festival di Napoli con “Tu si’ ‘na cosa grande”, non furono in pochi a storcere il naso non solo per la mancata aferesi al “Na” del titolo, ma pure perché in lingua napoletana l’aggettivo “grande” è quasi inesistente, e comunque non usuale. Per noi grande si traduce con “gruosso”. Ma forse non suonava bene dire: “Tu si’ ‘na cosa grossa”: nel resto d’Italia avrebbero inteso che il Mimmo Nazionale si rivolgesse a una ragazza “in carne”.
Il nostro linguaggio è ricco di anomalie: ci piace invertire l’accento tra l’ultima e la penultima sillaba, per cui “Piazza Cavoùr” diventa “Piazzza Càvour” e “Premio Nobél” diventa “premio Nòbel”. Noi per manifestare il nostro amore nei confronti di una persona, difficilmente diciamo “Ti amo”. Amiamo il più carnale “Te voglio ‘bbene!”, rafforzando ulteriormente il concetto col raddoppio della B iniziale. In “Io te va vasa’” e nella splendida e purtroppo quasi dimenticata, “Vurrìa”, gli autori traducono correttamente il condizionale “Vorrei” appunto con “vurrìa”.
Poi se ne viene Eduardo, non certo l’ultimo arrivato, che, tomo tomo, cacchio cacchio, scrive “Io vulesse truva’ pace”, sostituendo il congiuntivo al condizionale: forse per assonanza allo spagnolo, dal quale discendono molte nostre espressioni, e dove, in alcuni casi, il condizionale viene sostituito dal congiuntivo. Poi ci indigniamo se veniamo a sapere che l’unico museo al mondo dedicato alla canzone napoletana si trovi a Tokio e non a Napoli. Eppure sarebbero tante le cose da sapere e vedere, oltre naturalmente, che da ascoltare.
La già citata “Io te vurrìa vasa’ “ fu scritta dal poeta autodidatta e semi analfabeta Vincenzino Russo, morto giovanissimo e innamorato di una bella e ricca ragazza alla quale non si dichiarò mai per l’enorme differenza di classe esistente tra di loro. A lei dedicò pure l’ancora più struggente “Oj Marì”, divenuta, non si sa come, una marcetta allegra, quando, a leggerne le strofe con attenzione, ci si accorge del dolore che trapela dall’animo dell’autore.
Stessa sorte toccata a “ ‘O surdato ‘nnammurato”, nato come grido di dolore contro la barbarie della guerra e divenuta inno da stadio. Invece un altro Russo, di nome Ferdinando, fece arrabbiare di brutto Giosuè Carducci: durante una serata di gala, l’autore napoletano declamò i versi della sua “Scétete” alla bellissima accompagnatrice del poeta, il quale, indispettito e ingelosito, lasciò la festa assieme alla forse meno indispettita compagna. A Ferdinando Russo si deve, sia pure indirettamente, un altro capolavoro come “ ‘A Vucchella”. Il poeta napoletano sfidò l’abruzzese Gabriele D’Annunzio a scrivere i versi di una canzone napoletana. Il Vate non si fece pregare ed in pochi minuti, seduto a un tavolino del “Caffè Gambrinus”, da sempre luogo di ritrovo di artisti, buttò giù quella che, con le musiche del Maestro Francesco Paolo Tosti, è divenuta un cavallo di battaglia dei maggiori tenori mondiali.
Ma D’annunzio non fu l’unico non napoletano a cimentarsi e ad innamorarsi della canzone napoletana. Pare che il siciliano Vincenzo Bellini abbia in qualche modo messo mano alle musiche di “Fenesta ca lucive”. E chissà se Salvini sa che pare che il bergamasco Gaetano Donizetti abbia contribuito alla nascita di “Io te voglio bene assaje”, riprendendo un antico canto e perfezionato poi da Raffaele Sacco, di professione ottico, i cui eredi gestiscono ancora oggi un negozio di lenti e occhiali nel cuore della vecchia Napoli. A proposito di melodie, si racconta che quando Giacomo Puccini ascoltò per la prima volta “ ‘O Marenariello”, scritta da Salvatore Gambardella, disse: “Baratterei il quarto quadro della mia Bohème per poter saper scrivere una melodia come quella di “ ‘O Marenariello”.
Poi siccome ogni mondo è paese ed in ogni epoca anche l’arte ha subito il fascino del potere, la splendida “Torna a Surriento”, scritta dai fratelli De Curtis, non fu dedicata a una donna amata, come traspare dal testo, ma in onore del Primo Ministro Zanardelli, il Draghi di quel tempo, che aveva fatto in modo che a Sorrento fosse instaurato un nuovo ufficio postale.
Infine la canzone più famosa di tutti i tempi, “ ‘O sole mio”, scritta da Giovanni Capurro, fu musicata da Eduardo Di Capua ad Odessa, sulle rive del Mar Nero, durante un impeto di nostalgia. Nonostante il successo della canzone gli autori morirono in miseria, anche se, per ironia della sorte, gli eredi di un certo Alfredo Mazzucchi, deceduto nel 1972, riuscirono a dimostrare che il loro antenato era tra i coautori delle musiche e potranno godere dei diritti di autore fino al 2042! ‘O sole mio divenne talmente famosa che nel 1920 durante le olimpiadi di Anversa fu suonata, non si sa quanto inconsapevolmente, al posto della Marcia Reale, allora inno nazionale italiano. D’altronde un altro autore, il napoletano E.A.Mario (al secolo Giovanni Ermete Gaeta) aveva scritto “La canzone del Piave”, che, prima dell’Inno di Mameli, era stato l’Inno Nazionale italiano. Mi fermo qui non perché gli aneddoti relativi alla musica classica napoletana siano terminati, ma per non correre il rischio di annoiare qualcuno. Ma potrebbe esserci un secondo capitolo.