di Anna Iaccarino
Si dice che oggi sia l’era della comunicazione facile. Ma quale comunicazione?
Non molto tempo fa, anche se sembra essere trascorso un secolo, tanto è stato forte e radicale il cambiamento nell’uso dei mezzi e nelle modalità del comunicare, c’era tutto un mondo che si muoveva con mezzi semplici, naturali, senza ostaggio della velocità dei tempi.
I ricordi, per chi non più giovanissimo, non faranno fatica a trovare memoria.
Quelle belle cartoline spedite via posta dei passaggi di luoghi e mete attraversate, accompagnate da inchiostro vivo di saluti quasi candidi nella loro penna che rendeva felici al solo scriverle. Quelle immagini colorate di mondo che puntualmente arrivavano dopo la fine del viaggio e che proprio per questo mantenevano la magia dell’attesa sospesa, per poi materializzarsi nella sorpresa inaspettata trovata nella buca delle lettere.
Quello scrivere a mano frasi, pensieri, col corpo delle proprie dita, impronte, calore, dove comunicare senza vetrine un proprio stato d’animo, un bisogno, la gioia di un traguardo, o semplicemente momenti da voler condividere in intimità.
Quelle lunghe lettere sugli amori vissuti, immaginati, sulle amicizie di cuore, su quelle tradite, sugli ideali rincorsi, solle lotte mai paghe, sulle escursioni rubate ai giorni di scuola. Quell’inchiostro indelebile da custodire tra te e quella “vita” a cui volevi parlare, senza pubblica piazza, con cui siamo cresciuti, accarezzato ali, diventati adulti.
Insomma quei fogli di pagine con cui abbiamo scritto e letto la vita.
Prima, la corrispondenza tradizionale passava attraverso “l’assenza, l’ignoto, la lontananza”, una lunga attesa che ne dilatava i tempi, oggi con internet e le reti social, tra facebook, instagram, whatsApp e quant’altro, la velocità è piena e totale e siamo tutti costantemente connessi.
Ma anche continuamente immersi in una dimensione che diventa una sorta di status ingabbiato ed a rischio di una sterile e dannosa omologazione. Ovvero di quel ritrovarsi parte di un recinto mentale, tassello di un mosaico a catena che genera e induce a un “tempo dell’esserci” in maniera standard, rituale, quasi ossessiva.
Un insieme di moltitudine di immagini e pensieri costruiti, filtrati, a servizio dell’apoteosi di “sistema” che diventano libertà vendute, solitudini vestite di sorrisi vincenti e perdenti dell’essenza di Noi.
Certo la tecnologia della moderna comunicazione ha senza dubbio avuto ed ha anche grandi meriti, come quello di aver aperto le frontiere tra tutti e per ogni angolo del mondo, in una divulgazione di scambi arricchenti, veloci, produttivi, ed al passo del nuovo tempo.
Ma ha anche lentamente allontanato il sentire della vicinanza, occhi che si riconoscono, mani che stringono, il sentirsi uguali e diversi in un corpo a corpo di vita vera. Soprattutto ci ha distanziati da quell’idea di comunicare con l’altro che è ritrovarsi, partecipazione emotiva, empatia esistenziale.
Dalla possibilità di creare attraverso un filo invisibile ma forte come la corteccia di un vecchio albero, un dialogo di reciprocità, di confronto, che abbia e parli con i nostri volti, le nostre voci, la nostra rabbia. Liberi dall’induzione a condizionamenti che simulano realtà da vetrina, spoglie delle verità di vita.
La stessa trasmissione digitale della lingua ha subìto uno stravolgimento semplificando la divulgazione ma impoverendo il lessico. Ormai il nostro “dentro” lo si comunica con emoticon fatte in serie, che parlano e rispondono per noi, senza suono, espressioni linguistiche, anima narrante.
Creando un grande gregge di soggetti allineati, di cervelli disabituati a descrivere fatti, emozioni, ad usare le parole, la costruzione di un pensiero, di un’idea, di una soggettività di mente e spirito.
E allora come provare a recuperare terreno in un campo fondamentale come la comunicazione, indispensabile per un processo culturale e di interazione sociale per ogni comunità?
Come provare a mantenere un equilibrio tra quel sano di ieri e la giusta integrazione con l’oggi che avanza?
Una complessità alla quale non si può sfuggire, se si vuole stare al mondo parlando a sé stessi e agli altri. Recuperiamo i valori di riferimento, i canoni veri di vita, volgiamo lo sguardo verso ciò che ci circonda e valutiamo in che direzione andare per ritrovarci.
Lasciamoci aiutare dal passato in funzione del futuro, rispolveriamo il tatto, lo sguardo, la parola, ritorniamo a incontrarci anche nel comunicare.
Rientriamo nel gusto autentico della vita.
Utopia? Può darsi. Ma è l’unico progresso, in qualunque tempo, che fa crescere.