di Giosuè Di Palo
In questi giorni il dibattito pubblico si è incentrato, giustamente, sul conflitto Russia-Ucraina. Un conflitto che non sembra arrestarsi, ma che anzi, ogni giorno propone nuovi scenari e sviluppi tutt’altro che rassicuranti. Dalle minacce rivolte dalla Russia nei confronti di qualunque Stato decida di intromettersi nel conflitto, alle pesanti sanzioni promesse dall’Unione Europea, il quadro che ne esce è di una situazione che difficilmente si risolverà nel breve periodo e che necessita di tempo e di tante mediazioni.
Ed è dal dibattito pubblico che vorrei partire per analizzare l’unico aspetto di cui mi sento di poter parlare, quello della comunicazione. Non sono esperto di diritto internazionale, anch’io avrei tanto voluto scrivere un articolo di critica feroce nei confronti di Putin, di analisi geopolitica sulla situazione in Ucraina, sulla Nato, ma poi mi sono reso conto che le mie conoscenze in materia sono assimilabili alle mie competenze nel Risiko, quasi pari a zero.
Credo che di fronte a situazioni del genere la voglia di esprimere la propria opinione sia quanto mai impellente. Eppure, mi chiedo, è sempre necessario averla, un’ opinione? E’ moralmente obbligatorio scrivere e ricondividere post sull’argomento? Fino a che punto bisogna spingersi per cavalcare l’onda del sensazionalismo e non restare fagocitati dal vuoto del non avere nulla da raccontare?
In questi giorni ho letto tanto, e storto il naso parecchio, di fronte a post che non mettevano né tantomeno toglievano nulla al dibattito, ma che servivano più semplicemente ad aggiungere la medaglia al valore di “buon samaritano”, di luminare del Web che riesce sempre a trovare la chiave di risoluzione di tutti i mali del mondo. Perché queste persone non siano ancora state chiamate per un colloquio all’Onu ancora non me lo spiego. O per un Ted Talk. Dal post di Gino Sorbillo, abilissimo nel cavalcare l’onda dei trend topic, della pizza con la scritta “Stop War”, alle storie di Instagram condivise dai Vip in cui, fra un tagliolino al tartufo e una sciabolata di Dom Pèrignon, si mostravano affranti e solidali nei confronti del popolo Ucraino.
La mia rabbia non è tanto rivolta alla voglia di esprimere solidarietà, sia chiaro. Penso che chiunque abbia a cuore l’argomento e guardi con empatia alla situazione che si sta creando, eppure non concepisco questa ossessiva voglia di esserci a tutti i costi. Di trovare il modo per rendere un conflitto pericolosissimo, l’ennesimo modo per parlare di sé, con inopportuno autoreferenzialismo.
Proprio ieri, su TikTok, ho visto il video di una ragazza che si lamentava della guerra perché, diceva lei, “ho appena trovato il ragazzo, e sto realizzando i miei sogni”, con sotto decine, centinaia di commenti solidali e preoccupati, non tanto per la guerra, ma per la ragazza. Ancora, su Instagram, ho notato ricondivisioni a manetta di presunte associazioni di beneficenza che, per ogni ricondivisione nelle storie, promettevano donazioni a favore dell’Ucraina, così, di botto.
Ovviamente è bastato poco per capire che si trattassero di donazioni fake, ma tanto che importa, se comunque si è riusciti nell’intento di mostrarsi paladini dell’attivismo? Io penso che la guerra sia una cosa seria, e che meriti il giusto peso e la giusta trattazione. Penso che in momenti come questi sia corretto andare contro anche ad uno dei miei principi, quello di dire sempre la propria, a favore di una narrazione più giusta. E penso che non ci sia modo migliore per esprimere la propria solidarietà che fare del rispettoso silenzio e lasciare agli esperti, quelli veri, il compito di raccontare i fatti.