di Claudia Procentese
Pensando alle mie estati da bambina, giorni fa mi sono ritrovata a ripercorrere il litorale domitio-flegreo, da Licola a Pozzuoli. Era quasi il tramonto, nel caos veicolare persa tra mille segnaletiche stradali e di pub-ristoranti-salumerie-negozidiciabattine-discospritz-hotelaore, sotto un cielo scuro d’afa, ho rivisto i lidi. Ancora gli stessi nomi, ma poco ho riconosciuto.
Ho visto le insegne vecchie e quelle nuove, ho visto i bagnanti ritardatari lasciare gli stabilimenti mentre il sole calava, ho visto i parcheggi auto sistemati con la pagliarella nel terreno di sabbia, ho visto qualche presunto posteggiatore abusivo (o forse era una guida indigena per turisti) con la pelle appicciata color rosso puparuolo infornato, ho visto strutture pittate alla moda, ho visto comitive di ragazzi, ho visto una donna con il pantaloncino trasparente per far vedere simsalabim il costume perizoma che non dovrebbe vedersi, ho visto pure una famigliola con pargoli e antico secchiello. Ho visto una delle più affascinanti, per storia e paesaggio, strisce di costa campane. O meglio ne ho percorso la strada di cemento. Perché io il mare non l’ho visto. In alcuni punti potevo sbirciare il colore blu tra un’inferriata e i paletti, ma in altri, in troppi, c’erano anche pareti bunker in muratura ad occludere la vista.
Non ho visto il mare, se non in questo scorcio rubato in mezzo ad una palazzina animata da gente africana. Sulla spiaggia ho intravisto qualche ombrellone e criaturi che giocavano a palla.
Non ho visto il mare, avrei dovuto pagare ingresso o discesa. E ho pensato che negli ultimi due anni m’hanno fatto la capa tanta loro, il vaccino sì, il lockdown no, il tampone coatto, il diritto alla libertà, eppure da decenni nessuno si è ribellato allo stesso modo per riprendersi il proprio mare… il diritto alla libertà di usufruire del proprio mare.
Ognuno ha il mare che si merita.