di Anna Iaccarino – Immagine di E. Bilal
Che lo stato sociale oggi viva un profondo sbandamento è un dato incontrovertibile.
E se lo vive tanto da “dimenticare” i punti di riferimento, sia tradizionali che innovativi, arrivando a mettere in discussione status, prestigio, distribuzione delle risorse, il rischio potenziale di sfociare in un conflitto latente è alto. Allo stato è già in atto un conflitto sociale di tipo culturale, tanto da disseminare fragilità identitarie caratterizzate da vuoti di input intellettuali, nessuna idea in grado di posizionarsi. Prevale l’appiattimento e si gioca al ribasso.
Non vi è più uno stacco, una sovrastruttura capace di accompagnare un orientamento positivo verso quei valori immateriali in grado di “scortare”, di fungere da vettori sociali riconosciuti e condivisi da una maggioranza di cittadini. Il bisogno di “scontrarsi” per l’affermazione sugli altri, distrae le vie d’uscita da quei motivi generatori di conflitto.
Questa situazione genera inevitabilmente fragilità identitarie, smarrimento della coscienza critica e sbilanciamento personale. Storicamente chi ha contribuito a generare ciò è stata sicuramente anche la distanza tra movimenti sociali e politici, creando una vera e propria frattura, tanto da spedire in “sofferenza” intere classi sociali. Una società che non è più in grado di guardare alle masse ma ai singoli, rassegnata alle diseguaglianze e, ancor meno, ad essere generatrice di fermenti culturali.
Al contrario, divenendone selezionatrice di legami evanescenti, fuggitivi, forieri di distanza sociale.
Questo scorrere inquieto di giorni, il tormento quotidiano, diventa così terreno fertile per l’insorgere inconscio di insicurezza identitaria che, a sua volta, permea la famiglia, i luoghi comunitari, i rapporti relazionali, e relega il tempo lungo a un abbandono mentale.
E allora i processi identitari diventano sempre più spazi vaganti e indeterminati, con quel ritrovarsi in fragilità di equivalenza che crea vuoti di “non luogo” di sé. L’identità, che non è innata, ma è un percorrere in continua evoluzione, ne paga il divenire silenzioso ma sventrante di non identificazione e di mancanza o perdita di orientamento della propria entità e posizione in società.
La crisi dello stato sociale e le sofferenze identitarie che ne caratterizzano il passaggio intercorrente, determinano quindi un unico nodo di intreccio tra istituzioni politiche e società civile. Un punto forte non soltanto percepito, ma reale e in crescita su cui interrogarsi.
Ovvero sul quale avviare idee e domande mirate a valicare le conflittualità ed a decomporle, e per farlo non si può non introdurne un nesso di correlazione: la fuga dai “bisogni d’utopia”.
L’utopia, il “non essere” di qualcosa che si immagina “possa essere”. Quel credo, basato sul niente, ma foriero di un’idea del domani come speranza del cambiamento. La idealizzazione di una meta che, nell’imponderabilità della vita, lascia liberi alla possibilità dell’impossibile.
La “crisi” dell’utopia nasce dal vivere un oggi fine a sé stesso, dove tutto sembra sospeso su stese di campi senza più voli di atterraggio. La fuga dall’utopia è come non credere più nelle idee, nella speranza di trasformare silenzi in rumore, parole in voce, l’ignoto di quella vita che proprio nella sua imprevedibilità, tutto può.
Praticare un orizzonte utopico è invece una necessità della mente, uno stimolatore di modelli, visioni, che aiutano a guardare la vita quotidiana con l’attesa di un domani migliore. Non importa se e quando. Lo sguardo prolungato, e non fermo su un presente “ossessivo”, permette alle persone di immaginare la società in cui vivere e lineare il disegno della propria vita.
Se tutto questo viene “distratto” e reso lontano anche dal perseguire illusorio, cade anche quella dimensione irreale che è invece la migliore linfa alla possibilità di realizzazione di un sogno.
Quell’utopia libera e oltre che non chiede altro che di restare tale per rimanere vera e senza tempo.