di Giosuè Di Palo
Era Il 22 luglio 1991 quando Jeffrey Dahmer invitò Tracy Edwards nella sua abitazione, gli somministrò una dose di sonnifero, lo ammanettò a un braccio e lo costrinse a entrare nella stanza da letto. Accortosi della presenza di foto di cadaveri smembrati appese ai muri e di un odore insopportabile proveniente da un barile, Edwards colpì l’aggressore con un pugno e fuggì dall’appartamento.
Fermato da una pattuglia della polizia, convinse gli agenti ad andare a controllare l’appartamento di Dahmer, all’interno del quale furono ritrovati numerosi resti di cadaveri conservati nel frigorifero, teschi umani dipinti, due cuori umani avvolti in sacchetti di plastica e fotografie di cadaveri squartati all’interno di cassetti. Jeffrey fu immediatamente immobilizzato e condotto in prigione, in attesa di essere sottoposto a processo.
Da quel momento il mondo ha cominciato a sentire parlare di uno dei più famosi serial killer della storia. L’opinione e la coscienza pubblica si mossero subito, condannando le atrocità e la brutalità degli omicidi e chiedendo sempre più insistentemente la condanna di Dahmer, il quale fu giudicato colpevole e, con sentenza del 13 luglio 1992, condannato alla pena dell’ergastolo per ogni omicidio commesso totalizzando 957 anni di prigione.
Qualche giorno fa su Netflix è uscita la serie tv a lui dedicata e scritta da Ryan Murphy “Dahmer – mostro: La storia di Jeffrey Dahmer”. La serie segna il record assoluto della piattaforma, riuscendo a totalizzare 300 milioni di ore viste nella prima settimana. Segno evidente che i casi di cronaca, soprattutto se macabri e scabrosi, fanno sempre gola. Ed è qui che si apre il dibattito. E’ lecito fare film/serie tv su casi di cronaca nera? E se si, fin dove ci si può spingere nella narrazione per non oltraggiare la memoria delle vittime e far indignare i parenti? Nel caso di specie, a quanto pare, è bastato molto poco. Subito dopo l’uscita della serie Netflix, i parenti delle diciassette vittime di Dahmer si sono indignati, e non per il modo in cui la serie rappresentava gli omicidi, ma per il solo fatto che abbiano fatto una serie a lui dedicata, facendo tornare a galla emozioni e dolore provati e sbattendoli in faccia a milioni di spettatori in tutto il mondo. Io personalmente capisco e comprendo il punto di vista dei parenti delle vittime e come una serie o anche solo un documentario, soprattutto se troppo esplicito, in cui viene mostrato in che modo una persona cara viene azzerata, abusata, annientata, possa far male e affiorare vecchi dolori, forse mai sanati.
Capisco lo sdegno che si possa provare nel comprendere che quelle stesse atrocità che loro hanno percepito e vissuto per anni possano essere viste, giudicate, magari male interpretate o guardate con scarsa attenzione dal grande pubblico. Quello stesso pubblico che, a distanza di pochi mesi dalla condanna di Jeffrey Dahmer, ha iniziato una vera e propria feticizzazione del personaggio, costruendogli addosso quell’aria di misterioso fascino dell’oscuro, vestendosi da lui per Halloween e creando fumetti a lui dedicati. Dall’altra parte però, da profondo amante del cinema in ogni sua forma, non credo che creare un filtro e una censura ai racconti sia corretto e sano. O meglio, non ritengo questa essere la chiave vincente per lanciare un messaggio. Preferisco di più un film o una serie tv fatta male, ma almeno andata in onda, e passibile di critica di ogni tipo piuttosto che una censura a priori. Basti pensare al numero indefinito di film e serie televisive riguardanti un tema tanto attuale quanto sensibile quale l’olocausto e quanto bene possano fare tali prodotti per l’educazione delle future generazioni. Inoltre c’è da dire che la differenza la fa il modo in cui qualcosa viene raccontato, e questo vale in ogni ambito.
C’è una profonda differenza fra il modo di fare giornalismo e di raccontare casi di cronaca da parte della Leosini rispetto a Barbara D’Urso, ad esempio. Fra il raccontare, anche con crudezza, la realtà e la ricerca ossessiva di dettagli, spesso evitabili, per il solo gusto di passare per “compassionevole”. E poi c’è l’aspetto forse più controverso di tutti: la caratterizzazione del personaggio. Spesso ci illudiamo di poter descrivere la realtà dividendola in due grandi sfere, quella del bene e quella del male. Senza tener conto delle sfumature. Come una favola, dove i buoni sono riconoscibili finanche dall’aspetto esteriore ed altrettanto può dirsi dei cattivi. Non c’è effetto sorpresa, non c’è inganno. Eppure la realtà non è quasi mai così. Ci avete mai fatto caso che la frase che più spesso viene detta quando si intervistano parenti, amici, o semplici conoscenti del reo di turno è “sembrava una così brava persona?”. Ed è da questo punto che scatta il cortocircuito. L’apparenza, quasi sempre, inganna. Così come è successo nel caso di specie. Jeffrey Dahmer era il primo a nascondere i suoi pensieri agli altri, a mostrarsi per qualcosa che non era.
Un ragazzo problematico, schivo, timido ma che agli occhi delle future vittima sembrava, purtroppo, affascinare sempre di più. La caratterizzazione che la serie ha fatto del personaggio di Jeffrey si è mossa proprio da questo assunto, raccontando l’infanzia del serial killer, la solitudine che ha provato da bambino , i continui litigi in famiglia e l’avvicinamento, soprattutto grazie al padre, allo studio dei cadaveri degli animali. E non si tratta di un modo per empatizzare con un’assassino, quanto più semplicemente la volontà di raccontare una storia a 360°, senza fare sconti. Senza mistificazioni né sensazionalismi. Storie come questa, come per qualunque strage, omicidio ci sia stato nella storia, non solo le ritengo essere necessarie per far comprendere anche al largo pubblico cosa sia successo in un periodo storico, ma sono anche una chiave per analizzare l’animo umano, per capire fin dove la mente si possa spingere. Una storia, anche se cruda e spiacevole, è pur sempre una storia. E quella di Dahmer una delle più emblematiche delle degenerazioni della mente umana.