di Giuseppe De Silva
Ma le nostre fiction sono specchio della realtà o sono proiezione dei nostri più reconditi nascosti difetti?
La domanda è quasi marzulliana.
Ma riflettendo su quanto sto scrivendo (un nuovo romanzo mentre un altro è in via di pubblicazione) mi sono venuti in mente i personaggi delle nostre fiction: una serie di disturbati mentali con vite che non si augurerebbero neanche ai peggiori nemici.
L’avvocato Malinconico (ma quanto è bravo Massimiliano Gallo?) è un semplicione alla Forrest Gump che risolve tutto con alcune genialate indotte dalla sorte favorevole; Montalbano è un egoista misogino che vivrà la sua vecchiaia infelicemente da solo impossibilitato com’è a lasciare la sua Sicilia ed in particolare la sua abitazione che, siccome ci abita lui, non ci appare come il distrutto litorale domitio (e spero che Livia lo mandi finalmente dove si merita); il “bastardo” Lojacono ha un matrimonio fallito alle spalle ed è circondato da gente disturbata: fissati, paranoici, anaffettivi.
Mina Settembre risolve i problemi di tutti tranne i suoi; non parliamo di “Argentero Doc” che dopo il colpo di pistola in testa ha perso dieci anni di memoria ed appare nella sua diversità il più “normale” di tutti anche se si muove in un ospedale che è tale nel mondo dei sogni poiché rappresenta un modello che in particolare al sud noi non conosciamo… E neanche un medico come lui conosciamo. Con buona pace delle nostre signore.
E qualcuno, a proposito di medici, mi deve spiegare come sia possibile che il maresciallo Cecchini non si faccia benedire – o esorcizzare – da don Matteo dopo aver perso in sequenza: moglie, figlia, genero e tutti i parenti fino alla terza generazione in incidenti vari senza impazzire?
La produzione delle fiction, quindi, ha deciso di rappresentarci così perché effettivamente siamo diventati di siffatta guisa o la ricerca continua di personaggi strani per attirare l’attenzione è diventata ossessiva fino al parossismo rappresentando una realtà inesistente?
Non che si voglia che le fiction ci raccontino storie vere, intendiamoci: ma rappresentare in questo modo la nostra realtà mi fa nascere la domanda di inizio post: siamo così?
Insomma quanti anni luce sono passati dalla famiglia Benvenuti ?
(Fine anni Sessanta. Primo esempio di fiction che all’epoca si chiamavano sceneggiati nella quale si raccontano le dinamiche familiari, protagonista Enrico Maria Salerno).
Siamo allora tutti disturbati e disagiati secondo il racconto delle nostre fiction.
Gli eroi (Montalbano docet) sono antieroi, sono immersi nelle loro fragilità umane e hanno vite spesso improbabili per noi che sogniamo ancora il posto fisso, una casa e una macchina un po’ più dignitosa di una vecchia Seicento, la partita in TV, la pizza il sabato e il ragù la domenica.
Ma dove sta più “Gino Cervi Maigret” che torna casa dalla moglie, accende la pipa e pensa al caso, mentre la sua signora gli prepara la cena?
Dove sta più il tenente “Sheridan Ubaldo Lai”, primo investigatore americano d’Italia uomo tutto d’un pezzo senza tentennamenti e compromissioni?
Insomma: la nostra normalità dove è finita?
Troppo noioso per i nostri tempi un eroe “normale” che investiga, torna a casa e si corica con la moglie dopo aver accarezzato i figli che dormono e il giorno dopo andranno tranquillamente a scuola senza frequentare rave party?
Troppo noiosa la “normalità” per interessare il pubblico?
E cosa direbbe Rocco Schiavone, il più disagiato dei personaggi fiction moderni di questo post:
“E sti cazzi” o “Me’ cojoni?”.
In queste due espressioni di derivazione romanesca c’è tutto quello che siamo diventati.
La fiction lo racconta e non è detto che questa “narrazione” – termine in voga ultimamente -, piaccia a tutti o ci rappresenti per davvero. Al punto da nascondere la verità, ovvero che siamo tutti orfani di John Wayne. O di Amedeo Nazzari, fate voi.
Solo che non vogliamo ammetterlo. Perché potremmo apparire, rispetto alla modernità o presunta tale, “brutti sporchi e cattivi”.
E senza avere più nessuno con il garbo graffiante di Ettore Scola a raccontarcelo.