di Anna Iaccarino
Il Natale, in qualche modo, ha riguardato e riguarda un po’ tutti al di là della fede cristiana.
Chi in maniera strettamente religiosa, adempiendone e vivendone ogni simbolo, atto e funzione liturgica. Chi per il rito colorato di alberi addobbati e festoni vari con cui abbellire le proprie case e i regali da scambiare. Chi per ritrovarsi tra rimpatriate con parenti lontani o con vecchi amici. Chi semplicemente per godersi l’atmosfera di serate a teatro, tra i simboli di trend natalizio più in voga. Finanche chi è fuori da tutto questo ma viene coinvolto dalla moltitudine di un fare che diventa lo specchio roteante di una comunità in assedio di festa.
Ma quanto rimane dell’essenza più vera del Natale? Cosa resta della sua sacralità? Della peculiarità e inviolabilità della ricorrenza cristiana più sentita e importante nel mondo? Soprattutto, il “senso” del Natale ha ancora “senso” in un mondo che baratta sempre più i contenuti del tempo e volge verso l’appiattimento materiale del suo scorrere?
Oggi, lo stesso corpo sociale, vive le festività come “spazi di consumo”, livellate e introdotte nella sola ottica di business. Il continuo propinare, con martellanti indotti pubblicitari e slogan acchiappa felicità, il consumo sempre più crescente di giornate “dedicate”, ha inevitabilmente innescato un’uniformità spersonalizzata da festa di massa, una sorta di ritualità da orgia mentale collettiva che lascia spazio solo allo stordimento, ogni volta, della ricorrenza di turno, in attesa della corsa al prossimo appuntamento festaiolo dell’anno. Non appare allora così incomprensibile se tanti degli elementi che ormai caratterizzano anche il Natale nell’attuale società, abbiano poco a che fare con il significato cristiano della festa. Che poco o niente c’entrano con quella gioia “diversa” che dovrebbe saper “abitare” il Natale. Con il cogliere la prodigiosità di un evento che non solo ha segnato il corso della storia, ma ha mutato il senso del cammino di quella umanità che ha inteso farsene portatrice di fede.
Per questo parlare oggi del Natale è delicato ed estremamente complesso, perché richiede quel rispetto che merita l’enormità di quanto esso rappresenta e l’onestà di riconoscerne le mille contraddizioni di trasposizione in una realtà odierna tra verità e finzione d’essere.
In tale scenario mi viene naturale il richiamo a due brevi esempi, magari minimi, ma indicativi di una dimensione concreta solo apparentemente astratta.
Quanto Natale c’è in una società in cui la preoccupazione di chi non trova più un posto libero per le vacanze si affianca a quella di chi ha perso il posto di lavoro? Quanto Natale rimane in una società dove c’è chi per libertà intende l’imbarazzo della scelta tra infinite opportunità più o meno vincenti e chi, invece, deve lottare per difendere la libertà di esprimere idee, sentimenti, finanche il diritto ad esistere?
Si potrebbe continuare a scardinare altri punti di stretta connessione ma preferisco stringere il campo e interiorizzare un piccolo punto di snodo, ovvero provare a immaginare cosa fare oggi, per passare dal “sentire” il Natate a “sentirsi” Natale. Una sorta di auto-confronto allo specchio, che ovviamente assume una tessitura mentale completamente diversa tra chi ci crede, tra chi ha bisogno di crederci, tra chi non ci crede ma ne anela la speranza, tra quella umanità fuori da ogni tipo di credenza, men che mai religiosa, che veste posizioni figlie di quella libertà ideologica di solo materia e scienza. Io che vivo una dimensione spirituale in continuo vagar di atterraggi, fughe, cadute, rinascite, un’essenza mente-cuore tra il sentire improbabile l’esistenza di un Dio e il bisogno vitale e trascinante di cercarne la gioia della scoperta, ne incarno un incontro di sintesi.
Lo stato di mezzo tra il rincorrerlo senza trovarlo e la meraviglia di incontrarlo nei giorni di vita più inaspettati e improvvisamente pieni di tutto il Suo sentire. Con Lui, lontana da Lui, finanche contro di Lui, (quando la vita esagera) ma mai senza di Lui. Quando il dolore è troppo, le ingiustizie del mondo impietose, la ferocia degli accadimenti incomprensibile e inaccettabile, “credere” diventa il verbo più difficile da amare. Accettare che la fede esuli da domande terrene, che tutto ciò di terribile accade non c’entri nulla con quella che si ritiene mancanza Divina per averlo permesso, che vivere di fede significhi affidarsi e basta, diventa la prova più difficile da superare, perché ci si ritrova nel peggior stato di abbandono, la solitudine del dolore di chi si sente perso.
Quella dimensione smarrita che lascia in bilico del “fuori” di sé. Quel dividersi tra lacerazioni di perché senza risposta e il perpetuo cammino nel credo agognato. Tra la delusione di ritrovarsi in un senso di vuoto e la speranza incessante in un Cielo d’Amore, che si immagina lì, sopra di noi, come un manto avvolgente in ascolto di cuori.
Ebbene, io oggi identifico l’essenza del mio “sentirmi” Natale esattamente nella visione di questa potente miscela, quella che mi fa sentire più vicina alla mia idea di un Dio fra noi. Quell’Entità Celeste che così come si lascia libero di non dar certezze, concede a noi la libertà dei vuoti, di poterlo cercare ogni volta che ne sentiamo il bisogno senza timore di sentirci fuori tempo. Un Dio che non giudica e non condanna, che sa aspettare e accogliere sempre, in qualsiasi modo lo si cerchi o lo si viva, finanche nelle latitanze di anime che chiedono clemenza. Quel Dio capace di essere l’amico speciale che aiuta a perdonare e ci insegna a perdonarci. Quel Dio consapevole che la speranza pregata va ascoltata sempre, anche quando non è nei canoni dell’apparente giusto, ma vera e sofferta, come l’innocenza delle anime nude. Perché la speranza è un diritto d’amore.
Un percorso tra razionalità e spiritualità, questo mio, che mi aiuta a trovare un equilibrio esistenziale nelle mie sospensive di vita, che mi introietta a vivere il senso del Natale come il bisogno di interiorizzare l’intimità del mio dentro, di accompagnare una crescita, ancora in salita, che svolti oltre il recinto privilegiato aprendomi a un’umanità allargata.
L’augurio per me, come per chi potrà ritrovarsi, è quello che possa essere il preludio a un passaggio di vita che ne nobiliti l’abitare del tempo.
Il Natale come la celebrazione oltre l’Avvento. Come il sentimento di un’attesa che diventa casa e va al di là dell’io di ognuno di noi. Come spinta di un cammino d’insieme capace di esprimere in gesti e parole la grandezza della vita. Come quella luce lontana nel buio di una capanna che oggi, più che mai, dovrebbe essere tappa in ogni luogo di dolore e di non umanità, per farsi dono del “senso” del vivere. Il Natale inteso come una celebrazione, sì cristiana, ma come un richiamo rivolto all’umanità tutta, come universalità di quella nascita che ogni volta possa significare, per ognuno, vita, speranza, luce.
Come rivoluzione di cuori liberi in orizzonti d’amore.