di Mariavittoria Picone
“Siamo tutti dei grandissimi bugiardi. Dovremmo dare meno importanza alle parole che scriviamo e pronunciamo, ai pensieri che formuliamo.
Facciamo grandi sforzi per convincere gli altri che le cose stanno come le vediamo noi, sprechiamo una montagna di parole per raccontarcela come vogliamo, la verità, renderla accettabile, quando basterebbe osservare il passo, i gesti, i riti in cui ciascuno cerca rifugio, per vedere l’essenziale.
All’anima non servono parole, basta il corpo.
Così tutte le parole che usiamo diventano frastuono, buono a mitigare il dolore della realtà, a esaltare gioie che nessuno vede, a raccontarci bugie. Le parole servono più a chi le usa che a chi le ascolta.
Dovremmo avere il coraggio di restare in silenzio, perché ce ne vuole di coraggio per rimanere nudi.”
Dal mio romanzo “Condominio Arenella” (IOD Edizioni – 2020)
Questa autocitazione mi sembra il modo più opportuno per introdurre le mie riflessioni sull’ultima creatura di Wim Wenders: “Perfect Days”.
Il film è una sorta di documentario sulla vita di un uomo, presumibilmente sessantenne, addetto alle pulizie dei bagni pubblici a Tokyo e, in realtà, nasce proprio come documentario sui servizi igienici, diventato poi un film atipico, un’indagine antropologica sui nostri tempi.
Perfect days è la risposta zen a “Into the wild”, una sorta di Into the soul.
Il protagonista, Harayama (bravissimo l’attore Kōji Yakusho, palma d’oro a Cannes), vive attraverso l’esecuzione meticolosa dei propri riti quotidiani e sembra non desiderare altro. Vive in un piccolissimo appartamento soppalcato: giù, un lavandino ed un ripostiglio, sopra, uno stereo ed una mini-libreria, accanto ad un materassino che gli fa da letto; svolge scrupolosamente il proprio umile lavoro, non parla mai, usa un van per lavorare e nelle ore libere si sposta in bicicletta. Non ha uno smartphone, il cellulare che ha con sé, un vecchio modello startac, lo usa esclusivamente per telefonate di servizio; ascolta musicassette anni Ottanta e scatta foto in bianco e nero al cielo con una macchina fotografica analogica a pellicola.
Senza fuggire, come fa invece Christopher nello spietato film di Sean Penn, che è poi ispirato ad una storia vera, Harayama scappa dalla realtà dei bisogni indotti e dalla insostenibile leggerezza dell’essere, dalle illusioni e le speranze disattese, ignorando tutto il superfluo e vivendo del necessario, godendo delle piccole cose: una gara di tris con uno sconosciuto, un libro, una canzone, la cura delle piante. Nessun progetto, nessuna aspettativa.
I sorrisi più belli, però, sono quelli provocati dalla visita inaspettata della nipote e dalle attenzioni lievi e discrete della proprietaria del locale dove si reca nel fine settimana. Harayama vive nel momento, ma non rifiuta la condivisione, l’impresa di Christopher, il protagonista di Into the wild, fallisce perché la sua scelta gli impone una solitudine assoluta, una drastica rinuncia ad ogni minimo compromesso e quindi anche alla reciprocità.
Un individualismo socialmente benefico, che si sottrae alla finzione collettiva e si contrappone al narcisismo degli irrisolti.
Vivere nel momento, ma non necessariamente lontano fisicamente da tutto e tutti, lontano il più possibile dai condizionamenti esterni, in contatto costante con la propria anima. Probabilmente, in Occidente, alcuni riescono a raggiungere questo stato di benessere verso la tarda età, altri un po’ prima, ma solo lavorando molto su se stessi, la maggior parte, rinvia il lavoro di riflessione alla prossima volta.
“Adesso è adesso, la prossima volta è la prossima volta”, dice il protagonista, rispondendo ad una richiesta della nipote adolescente, ripetendolo più volte, come un mantra.
Il film, lento e privo di grandi dialoghi, è consigliato ad un pubblico propenso alla meditazione, che non cerca risposte definitive e frasi illuminanti da condividere.
Nel silenzio c’è più sincerità.