di Anna Iaccarino
C’è sempre, dentro di noi, un orlo di terra ignoto, in taluni casi persino a noi stessi tenuto volutamente in penombra, al riparo da sguardi e confini. Una sorta di sponda che non delimitiamo e lasciamo lì come anfratto a cui approdare in caso di bisogno di un nido segreto. È quel luogo chiamato “indistinto” dove si annidano paure, ferite, gioia, la speranza alla felicità, il fascinoso mistero di quel sogno mai abbandonato e immaginato sempre possibile. Quel passaggio in errar di cammino che come una nenia bambina ripetiamo fiduciosi all’infinito in tre nude parole: “verrà il tempo”. Non importa quando, dove, come.
Avrà passi sospesi e mani sudate, ricordi da salvare e malinconie da lasciare andare, vuoti gridanti e occhi innamorati, ma quel ritorno di tre parole sarà quel pensiero che non smetterà mai di rimbombare nelle nostre menti, nella nostra resilienza, nelle nostre bocche assetate, nell’infinito aspettar ai bordi della vita.
In attesa … le notti troppo lunghe si alterneranno con quelle foriere di albe profumante.
I pensieri faranno meno a botte, le paure troveranno meno spazi.
La vita, che ci chiede prima di amarla per poi imporci di lasciarla, diventerà l’assurda accettazione dell’invenzione più bella e agognata di una compravendita.
Viverne la pienezza e la leggerezza della temporalità sarà allora il regalo da farsi, nella consapevolezza di un dono unico e prezioso, pur coscienti che tutto il resto non ci verrà risparmiato. Quella vita da vivere come la magia di un’essenza straordinaria e irripetibile che, in quanto tale, non sarà mai completamene nostra, né di quel “per sempre” terreno a noi tanto caro, ma la proiezione di una visione celeste da lasciare al sogno del … dopo.
Accettare quindi quel vivere continuamente in bilico dell’imprevedibile, dove tutto è possibile, nulla è certo. Un percorso che poche volte sarà in grado di dare risposte ai nostri smarriti perché, ma che ogni volta varrà la pena di superare per quell’incognito di nuova bellezza che, puntualmente, troverà spazi di approdo o quantomeno di speranza a crederci ancora. Esercizio complicato, che deve valicare fragilità nel frattempo sempre più radicate, spinte sempre più demotivate, stati d’animo sempre più spogli di semi da arare.
Ci è stato insegnato che dobbiamo cercare sempre di potenziare la ricchezza che è in noi, di provare ad essere sempre più figli di un’idea d’insieme, di un’umanità allargata, ma spesso accade che più miglioriamo il cammino, più ci ritroviamo inadatti all’esistenza.
Il mondo vuole lo splendore per gli occhi, non perdona la bellezza “dentro”.
È un fardello che lascia a noi, nella solitudine di una scelta.
Cosa fare?
Oggi, in una età che saluta la giovinezza, ma che sta maturando in me la bellezza della pienezza d’essere, in uno schedario di interrogativi, a questa domanda principe, scelgo sempre di più la “non risposta”.
Ovvero nessuna verità che includa il pacchetto completo del “giusto” fare. Nessun tragitto con meta certa e vincente di vita.
Tante piccole vie, arterie, itinerari, salite, discese, autostrade impazzite, a cui darsi, ogni volta, per quel che il tempo ha fatto di noi e deciderà ancora nei vari transisti del divenire.
E quando quel tempo verrà, trovarsi pronti a praticarlo e non più a cavalcarne l’immaginario. Allora sì che varrà la pena aspettarlo, a quel punto anche l’attesa diverrà un dono.
Tra i tanti ieri passati, i molti domani sognati, bisognerà forse semplicemente riconoscerlo … nell’oggi da vivere e da scoprire (ogni volta).