Non avevo ancora undici anni, undici miseri anni, quando le radio private (radio libere, a quei tempi) cominciarono a passare insistentemente “‘Na tazzulella ‘e cafè”. I miei strumenti culturali erano quelli che erano, il frutto anagraficamente acerbissimo di una formazione parziale e orientata; educato a pane e Roberto Murolo (ché a casa mia si prediligeva un classicismo intransigente, anche Sergio Bruni era considerato appena manierato), mi destabilizzava, mi turbava, mi irretiva quel sound nuovo e indecifrabile, quel piano pestato, quella voce giovane, strappata eppure melodiosa, a tratti precocemente arrochita. Ma ancora non ero in grado di comprendere la portata di uno statement quale “e chisti invece ‘e dà na mano / s’allisciano se vattono se magnano ‘a città”.
Due anni dopo, stessa storia. Il juke-box (già, il juke-box) rimandavano ossessivamente “Je so’ pazzo”. Anche in quel caso: che cosa stava dicendo, a un ragazzino in formazione, una canzone in napoletano (non: una canzone napoletana) che trasudava individualismo, autonomia, autodeterminazione, e che terminava con l’immagine del Masaniello nero e con l’ordine perentorio: “nun ce scassate ‘o cazzo”?
Poi cominciai a capire. Poi venne Nero a metà, l’alleria e l’appocundria, e poi Vaimò, tanto io sbarèo e se capisci va bene o sinò te futte, e poi Bella’mbriana, mo’ basta e nuje simmo ‘e miezo ‘a via, eccetera eccetera. Senza che una sola sillaba, un solo accordo, una sola nuance, un solo riff, sfuggisse alla mia esigenza di metabolizzare, ripensare, ricordare. Stavo costruendo la mia vita, stavo costruendo la memoria, inconsapevolmente, anzi anapaisthètos (senza averne percezione), come in una poesia di Kavafis.
Ma questo è altra storia, anzi tutta n’ata storia. Rimembranze di questo tipo si muovono sul crinale antipatico e autoreferenziale del ricordo social vagamente astenico, quello dei “come soffro”, dei “piango a dirotto” dei “non ascoltavo altro che lui”, dell’esibizione autoreferenziale del proprio dolore, della comunicazione all’universo mondo della propria inconsolabile afflizione: la prostrazione di una comunità virtuale che ha bisogno di “dire”, di “dirsi”, di elaborare condividendo. Un aspetto, per contro, interessante (anche culturalmente) del socialdolore da cui si è travolti è l’affastellarsi irrelato di citazioni (e, al limite, anche di link di canzoni): tutta questa roba disordinatamente assieme, quella sì, fa capire quanto sia stato grande l’artista, quanta roba e di che livello abbia prodotto, in appena trentotto anni (io ne ho 48, per capirci) di carriera. Mi si perdonerà, si invochi pure il “parce sepulto”: non è Witney Houston, non è Amy Winehouse, non è nemmeno Robin Williams. È Pino Daniele, è una città.
La morte dei grandi addolora, ovvio. Ma restituisce, in qualche misura, immediata serenità, inopinata lucidità, afflato d’analisi, più che improduttività di compianto. Muore un artista vero (ma anche, che so, un grande attore, o un grande sportivo – è di ieri sera una memorabile puntata di «Sfide» su Pantani) e sincronicamente erompono, e prevalgono, la possanza delle sue imprese, il valore, oggettivo o no, della sua arte; il patrimonio che lascia è, sotto infiniti aspetti, sideralmente più importante e pervasivo del trapasso. È la consolazione per chi resta, è l’unica cosa capace di resistere al tempo e di sottrarsi alla retorica. Davvero, “sol chi non lascia eredità di affetti” …
Certo, per chi, come me, è nato nei ’60, ogni pezzo, dei quali è nel sangue ogni riff, ogni nuance, ogni assolo, ogni versione live disponibile, nasconde una storia, un brandello di vita, un aneddoto insignificante o un evento epocale. Credo che una delle manifestazioni più pervasive e palmari di una memoria attiva ed operante sia la persistenza “per automatismi inconsci” di espressioni, modi di dire, fulminee associazioni verbali. Pino Daniele, oltre a molto altro, a me ha letteralmente insegnato “chi sono”. Lo ha fatto nelle pieghe di qualche suo pezzo dei “bei tempi” (ho amato molto meno il Pino Daniele post 1993, quello che scrive le canzoni a Giorgia e a Irene Grandi), magari misconosciuto. Mi ha fornito il senso di qualche bravata notturna invernale di papà: “cu ‘è giurnali ‘mpietto ‘e friddo nun se more”. Mi ha spiegato il carattere rituale del cambio di stagione: “ogni juorno ‘e quattro ‘e maggio / primmavera nun po’ arrivà”. Mi ha fatto rimpiangere, quello sì, con le lacrime agli occhi, i silenzi del mio nonno materno andato via troppo presto “’o no’, statte cu’mme / quanti’ccose ch’haje a sapè”. Mi ha illustrato, con il chiaroscuro di un interno eduardiano, quale istanze celi il senso dell’accumulo premuroso e certosino delle famiglie del popolo: “nuje a dinto ‘e ‘ccase nun jettammo niente / sempre quaccosa ce po’ servì / guardanno ‘a ‘rrobba vecchia pare nova”. Eppure questo radicamento ideologico in apparenza conservativo ha avuto un pendant straordinario, innovativo, rivoluzionario, in una ricerca musicale e culturale costante, incessante, trasversale, pluriculturale. Perfettamente aderente al meltin’pot che è storicamente, e attualmente, Napoli, una sorta di trasposizione in musica di quella sorta di crogiuolo multietnico che è la città dell’”Albergo dei poveri” di Ben Jelloun, per capirci. È così che l’adolescente curioso di trent’anni fa ha scoperto Pat Metheny, Chick Corea, Wayne Shorter, si è chiesto chi fossero i Weather Report, Gato Barbieri, Steve Gadd.
Rimane, adesso, l’opera d’amore, l’ “io ho quel che ho donato”. Rimane l’incanto di un’arte capace di scandire vicende di vita, su cui si sono innervate e snodate intere esistenze. Un’arte che, in una valutazione serena, si è snodata in un percorso ascensionale irripetibile, ha registrato un picco, ha sperimentato la parabola discendente, il deterioramento delle capacità vocali, un inaridimento lieve dell’imprinting ideologico e della vena poetica, lieve ma sensibile per chi ha amato la “sua” rivoluzione, Rimane la necessità di analizzare serenamente e senza ipocrisie il suo rapporto con Napoli, diciamo da metà anni ’90 ad oggi. Quella relazione intensa ma imperfetta, quell’istanza radicata ma centrifuga, che spinge oggi i figli, autoproclamatisi romani, a scegliere Roma per l’ultimo saluto ad un genio di questa terra, in spregio (in legittimo spregio, ci mancherebbe) di qualsiasi impulso identitario.
Rimane, infine, la sua doverosa, e purtroppo precoce, assunzione nel canone dei classici. Quelli come Mozart o Miles Davis, che fanno del proprio rigore, della propria precisione la condizione imprescindibile della libertà di chi ascolta e si emoziona. Noi ascoltiamo il classico Pino Daniele, ma il classico Pino Daniele legge noi, ci dice chi siamo stati, chi siamo, chi, forse, abbiamo la prospettiva di essere. Il privilegio di chi sa interpretare il proprio tempo, la propria cultura, la propria terra, avventurandosi ben al di sotto della crosta di superficie, soltanto andandosene via troppo presto. Come nella più arrabbiata delle sue canzoni: ‘o nonno è muorto a sessant’anni”.