La tragedia di domenica, avvenuta a pochi chilometri dalla costa siciliana, pone un problema di non poco conto: quanto vale, effettivamente, l’Europa nell’odierno contesto delle relazioni internazionali?
Quanto, in particolare, può agevolare i processi di integrazione?
Infatti, è evidente che la morte di quei poveri settecento innocenti, che erano in viaggio verso l’Italia, allo scopo di dare una svolta alla loro esistenza, vissuta finora nei Paesi poveri del Nord-Africa, ha dei responsabili ben precisi.
Fino all’anno scorso, l’Unione Europea ha finanziato un progetto, Mare Nostrum, che consentiva alla nostra Marina di andare a prendere i migranti in mezzo al Mediterraneo, allo scopo appunto di evitare tragedie, come quella che si è prodotta nella notte compresa fra lo scorso sabato e domenica.
Quel progetto, considerato troppo dispendioso, è stato sostituito da un altro, Triton, che invece autorizza le navi della Marina ad andare in soccorso dei barconi, solo, nelle immediate prossimità della costa italiana, per cui le possibilità di immani tragedie aumentano sensibilmente, dal momento che la criminalità africana, che gestisce i traffici di esseri umani, certo non si fa scrupoli nel riempire gli scafi di migranti oltre qualsiasi ragionevole soglia indicata da istanze, pur minime, di sicurezza.
Pertanto, lo spettacolo dello scorso week-end è destinato a ripetersi, ancora, numerose altre volte, a meno che l’Europa non dia una svolta autentica alle sue politiche nel Nord-Africa.
Non ci convince, affatto, la proposta di Renzi ed Alfano di acquisire l’autorizzazione dell’Onu per andare a bombardare i mezzi degli scafisti libici, quando questi sono, ancora, fermi nei porti africani, perché si può ben immaginare quanto pericolosa sia l’operazione militare, che di fatto si prefigura.
Innanzitutto, appare evidente che gli scafi, quando sono fermi nei porticcioli, sono difficilmente distinguibili fra loro, per cui come si fa a bombardare, chirurgicamente, un mezzo destinato al trasporto delle persone, distinguendolo opportunamente da quelli che sono utilizzati per la pesca o per qualsiasi altro uso civile legale?
Inoltre, ci appare velleitaria la prospettiva del soccorso di questi poveri disgraziati nelle loro terre d’origine, attraverso l’allestimento di campi profughi, dove i migranti dovrebbero essere ospitati per un tempo indeterminato.
Infatti, l’allestimento di campi profughi prefigura l’esistenza, in loco, di un’autorità statale, che sia in grado di far rispettare la legge e, purtroppo, in tutto il Nord-Africa, dai tempi delle cosiddette “primavere arabe”, non esistono più Stati, che siano capaci di fissare una legge e, soprattutto, di farla osservare.
A tal proposito, il “mea culpa” dell’Europa non dovrebbe mai cessare, visto che i danni, che sono stati causati per effetto delle politiche scellerate, messe in essere dal 2011 in poi, sono così ampi, che diventa difficile ora porre un rimedio, almeno, ragionevole.
Se gli Stati sono stati distrutti, come si può immaginare di ricostruirli dall’oggi al domani?
Ormai, quelle terre sono alla mercé di clan locali, che gestiscono i traffici di esseri umani in modo criminale, dal momento che un siffatto commercio rappresenta per loro la principale voce economica, da quando non esistono più i regimi di Gheddafi, Ben Alì e Mubarak, che certamente mai avrebbero consentito loro di sostituirsi alla forza legittima dell’autorità pubblica.
A tal riguardo, l’Europa dovrebbe riconoscere l’errore commesso, quando diede l’autorizzazione, formale e sostanziale, al rovesciamento di regimi, che erano funzionali – invece – al mantenimento della pace nel Mediterraneo.
Ai guasti, poi, prodotti dagli Europei nei Paesi del Magreb, si sono aggiunti quelli generati in Medioriente dalla folle politica estera statunitense di Bush, Obama e della Clinton, che, abbattendo il regime iracheno di Saddam ed incentivando la ribellione contro quello siriano di Assad, ha creato altri focolai di guerra, da cui quotidianamente si allontanano migliaia di sfollati, che intendono sfuggire dai teatri bellici per emigrare in Europa, sperando di trovare nel vecchio continente la pace, che hanno perso, definitivamente, nelle loro terre d’origine.
Purtroppo, molto spesso, come è successo ai settecento morti dell’altro giorno, moltissimi di loro muoiono prima di mettere piede nel continente europeo, a pochi chilometri da un’area, che, vista come il moderno Eldorado, si trasforma drammaticamente in un inferno non meno pericoloso di quello da cui scappano, insieme a bambini ed anziani.
L’Europa, quindi, ha obiettivamente sbagliato in molte scelte dell’ultimo quadriennio e, forse, ne sta compiendo altre non meno errate di quelle a cui tenta di porre rimedio in modo frettoloso, sotto l’impulso dei fatti di cronaca e delle vicende, che vengono narrati dai media in modo, purtroppo, impietoso.
Quello dei campi profughi, allestiti nei Paesi africani, da cui partono i migranti, infatti ci appare l’ennesimo errore, che si può consumare, se prima non si consolida – in loco – un’autorità pubblica, che gestisca, alla luce di uno spirito di legalità, queste moderne riserve indiane, altrimenti destinate ad essere controllate dalla potente criminalità locale, che verrebbe addirittura finanziata dall’Europa per amministrare siffatte strutture.
Peraltro, un campo profughi è – evidentemente – una struttura destinata ad essere a tempo, in attesa di una nuova e definitiva sistemazione per quanti lo affollano; non può, invero, divenire una scelta definitiva, dal momento che un esito simile prefigurerebbe, assai tragicamente, la creazione di nuovi ghetti in località prossime al deserto, dove le persone internate sarebbero destinate a morire o ad acquisire l’opportuno spirito criminale – necessario per sopravvivere – dai loro stessi carcerieri travestiti da soccorritori, perfino legittimati dall’egida europea e dell’Onu.
È ineluttabile che, quando i fatti assumono una piega sbagliata, gli errori poi vengano l’uno dopo l’altro, per cui ciò che si compie successivamente non solo non pone rimedio allo sbaglio precedente, ma è destinato, talora, finanche a peggiorare una condizione, di per sé, precaria e – come in tal caso – fortemente contraria a qualsiasi elementare sentimento di umanità e di filantropia.
Non osiamo ipotizzare – al momento – gli scenari futuri, ma certo, mentre aumenta il dolore per dei poveri individui, che fuggono dalle devastazioni della fame e delle guerre, non possiamo non rimanere inquietati per il cinismo di quanti, speculando a fini elettorali su tali immani tragedie, sono pronti ad auspicare la morte di altri migranti o, peggio ancora, soffiano sul venticello del razzismo e della xenofobia, dimostrando non solamente di essere pessimi cristiani, ma in particolare di non avere alcun senso dello Stato, né nozione – pur embrionale – di bene pubblico.