L’approvazione del ddl sulla cosiddetta “Buona Scuola” ha determinato, tra i primi effetti, l’implosione del PD, visto che Fassina, uno dei più autorevoli dirigenti democratici in materia economica, ha deciso di seguire la strada già percorsa da Civati e Cofferati, abbandonando definitivamente il partito, che aveva contribuito a fondare negli anni scorsi.
Lo scopo è evidente: costruire un movimento o, comunque, una forza alla Sinistra del PD che abbia come sua ambizione l’elezione di parlamentari nella prossima legislatura, quando si voterà con il nuovo meccanismo elettorale dell’Italicum.
Il problema non è di poco conto, visto che, da anni, si tenta nel Paese di creare un polo autenticamente progressista, senza però conseguire risultati pregevoli, dato che l’Italia ha sempre più manifestato un sentimento di repulsione verso tutto ciò che, in qualche modo, potesse richiamarsi alla tradizione del Socialismo più oltranzista e, quindi, del Comunismo del XX secolo.
Ora, però, la situazione complessiva italiana impone una riflessione seria, visto che gli ultimi provvedimenti, caldeggiati dal PD renziano, prefigurano una svolta moderata da parte della forza che era nata, qualche anno fa, per dare rappresentanza ai due riformismi del socialismo democratico e del cattolicesimo più avanzato.
Quale sia la cultura, che anima il PD e la stagione del renzismo imperante, non è dato sapere in modo compiuto.
Moderatismo? Forse, neo-centrismo, condito da qualche traccia malcelata di leaderismo sfrenato? Liberalismo? Liberismo?
Certo è che Berlinguer e lo stesso De Gasperi avevano una visione dei rapporti di forza fra Destra e Sinistra e della dinamica istituzionale ben diversa da quella dell’odierno Presidente del Consiglio, anche perché essi erano il frutto di un momento storico nel quale l’azione dei partiti nasceva e diveniva matura nel solco di un’ideologia e di una cultura, che oggi mancano in modo fin troppo evidente, per cui è ineluttabile che, in una fase di transizione, come quella odierna, il Segretario Nazionale del principale partito italiano possa essere ondivago, dimostrando che, alle sue spalle, non ci sono più i robusti riferimenti culturali di un tempo.
In tale contesto, è ovvio che dirigenti, animati dal proposito di non seppellire la tradizione migliore della Sinistra italiana, non possano non mobilitarsi e cercare di occupare, con la propria iniziativa, lo spazio – politico e parlamentare – lasciato libero da chi si identifica assai cinicamente con il potere precostituito, a prescindere finanche da una riflessione sulla società, che possa essere minimamente attendibile.
Non conosciamo gli esiti di una dinamica siffatta: infatti, il M5S erode molto consenso alla Sinistra post-renziana, per cui diviene ineluttabile immaginare che il principale compito di Fassina, Civati, Cofferati sia quello di recuperare i voti che sono andati, negli ultimi anni, ai Grillini o che, peggio ancora, non sono stati espressi affatto, dato che una fetta importante dei delusi del PD renziano, negli ultimi dodici mesi, ha deciso deliberatamente di astenersi da qualsiasi momento di partecipazione democratica.
La sfida è interessante, ma si presenta assai difficile: bisogna ridare identità a movimenti sociali, che si agitano in modo confuso e che aspettano di ritrovare una paternità culturale, che loro manca; si deve riorganizzare lo spazio del dissenso, ben sapendo che il qualunquismo della Destra neo-nazionalista e leghista riesce ad ottenere l’attenzione di quegli ambienti, che – un tempo – non avrebbero mai votato per un partito, che non fosse di Sinistra.
La nuova Sinistra, che sta per nascere, dovrà avere il coraggio di mettere in discussione seriamente l’Europa e l’euro, cioè quelle due conquiste che, finora, abbiamo creduto fossero parte integrante del mondo riformista e che, invece, si sono scoperte “all’apparir del vero” – come dice il poeta – essere il momento di non ritorno di un secolo (il Novecento) e di un pensiero politico (la socialdemocrazia), che hanno consentito – fino a quando sono stati attivi e vitali – di promuovere la liberazione dal bisogno di milioni di persone, altrimenti condannate alla povertà ed al degrado.
Sarà possibile, partendo da questi presupposti, ridare vita ad una speranza?
Sarà fattibile costruire una dialettica, che consenta ai ceti sociali, ancora non distrutti dalla crisi, di relazionarsi fra loro in modo proficuo, evitando un unanimismo di mera facciata, che nasconde una forma di autocrazia soft?
I prossimi anni ci diranno la verità: certo è che la società liquida ha liquefatto valori e culture, che avrebbero avuto un’importanza ed un ruolo straordinari in un contesto difficile, come quello in cui viviamo.