Nei giorni scorsi, dalle pagine di Repubblica, ha avuto inizio una polemica importante fra l’ex-Presidente, Giorgio Napolitano, ed il fondatore del giornale di proprietà della famiglia De Benedetti, Eugenio Scalfari.
Oggetto del dibattito è stata la revisione della Costituzione e la valenza democratica della stessa, confermata dall’ex-Capo dello Stato, che, quando era al Quirinale, ne è stato il principale garante, e smentita invece dal notissimo giornalista, che è, ormai, il leader di uno schieramento assai largo, che chiede profonde innovazioni al progetto iniziale di cambiamento della Carta.
È ben noto che l’intero disegno di legge verta intorno all’introduzione di un bicameralismo zoppo, per cui il Senato, non più eleggibile a suffragio universale, ma di nomina dei Consigli Regionali, diventerebbe una Camera di secondo livello, che non dà più la fiducia per la nascita dei Governi.
Una siffatta ipotesi non è, di per sé, funesta per la democrazia, visto che esistono sistemi democratici avanzati, come quello inglese o quello tedesco, nei quali le funzioni delle due Camere sono nettamente distinte, così come sono diversi i criteri di nomina e di elezione dei loro rispettivi componenti.
Nel caso italiano, però, si aggiunge un elemento non poco preoccupante: mentre il Senato perde funzioni rilevanti, la Camera dei Deputati, unico organo politico del potere legislativo, in grado di dare o di togliere la fiducia ai Governi, di fatto verrebbe nominata per due terzi dalle Segreterie dei partiti, dal momento che gli onorevoli elettivi sarebbero solo un terzo del totale, mentre tutti gli altri, distribuiti fra maggioranza ed opposizione, verrebbero prescelti dai leaders nazionali, in base ovviamente ad un criterio di fedeltà al Capo di turno.
In tal modo, inevitabilmente, il rapporto virtuoso fra potere legislativo e potere esecutivo verrebbe a capovolgersi, perché il Presidente del Consiglio uscente o, comunque, aspirante alla carica avrebbe modo di scegliersi i parlamentari, che successivamente sarebbero chiamati a dargli la fiducia, per cui si può immaginare, molto facilmente, come lo spazio di autonomia del Parlamento rispetto al Governo sarebbe assai ridotto.
Peraltro, con il potere di nomina dei deputati in capo ai Segretari di partito, è chiaro che sulla nostra democrazia penderebbe, incessantemente, la spada di Damocle del ricatto continuo, per cui, qualora si presentasse un provvedimento governativo difficile ad essere digerito dal Parlamento, questo comunque dovrebbe ratificarlo, a meno che i suoi membri non vogliano andare a casa ed essere sostituiti, così, da parlamentari con un maggior grado di fidelizzazione al leader.
È evidente che, qualora venisse approvata la riforma fortemente voluta dallo stesso Napolitano e da Renzi, la nostra democrazia cambierebbe profondamente caratteristiche e modalità di funzionamento: non vogliamo scomodare paure ancestrali o fobie, spesso presenti nello schieramento progressista, ma in verità non si può negare che, da un modello di democrazia partecipativa, si passerebbe ad uno di tipo autoritario, al cui interno l’organo, autentico motore dell’iniziativa politica, non sarebbe più il Parlamento, ma il Governo.
Noi, sin dall’anno scorso, abbiamo sempre combattuto, con l’umile potere della nostra penna, perché la riforma renziana non passasse e, dopoché il fronte dei contrari si è ampliato a tal punto da comprendere, finanche, il fondatore di Repubblica, non possiamo non continuare nella nostra battaglia, che parte anche da un’acquisizione culturale di fondo.
Quando, all’indomani della Seconda Guerra Mondiale, i Paesi, che uscivano dalle dittature del Fascismo e del Nazismo, ricercarono un prototipo di Costituzione, per rifondare le condizioni della partecipazione popolare, individuarono nella Costituzione austriaca, emanata dopo la Grande Guerra, il modello virtuoso da seguire, per cui, per tutti i costituzionalisti, il frutto del lavoro, che era stato svolto da Hans Kelsen e dai giuristi di scuola positivista, apparve come quello più indicato per evitare la rinascita di regimi o, comunque, di forme dispotiche di potere politico.
Oggi, a distanza di quasi un secolo, non vediamo le ragioni per cui bisognerebbe fare una così netta inversione di marcia rispetto alla linea, ideale e pragmatica, segnata dal dibattito filosofico della fine degli anni Quaranta.
D’altronde, la progressiva tendenza a concepire lo Stato come un’entità privata e, quindi, a mutuare forme di funzionamento dell’impresa, per trasferirle sic et simpliciter alla Pubblica Amministrazione, non ci sembra il viatico migliore per costruire una società migliore di quella nella quale sono vissuti i nostri genitori.
Infatti, non si può immaginare di gettare il bambino con l’acqua sporca, come si dice in gergo, cioè, a nostro avviso, è assolutamente fallace il pensiero di quanti immaginano che, imprimendo una svolta autoritaria alla democrazia italiana, si possa renderla per tal via più efficiente.
I criteri dell’efficientismo non possono essere adoperati, secondo noi, per valutare la qualità del vivere democratico, perché, fra una democrazia autoritaria ed efficiente ed una, invece, più capace di garantire gli interessi legittimi di tutti, sceglieremmo sempre la seconda e non la prima, sapendo bene che, quando si parla di un bene pubblico di inestimabile valore, qual è la libertà e le forme della partecipazione, certo non si possono applicare le categorie concettuali valide per la difesa e la tutela di interessi, pur non illegittimi, di mera natura privatistica.
Non possiamo non auspicare che, anche, i parlamentari italiani, a partire dal prossimo settembre, possano pensarla come noi e come Scalfari, se si vuole evitare uno strappo, che sarebbe pericoloso, tanto più in presenza di una crisi economico-finanziaria, che divora i redditi delle famiglie e, quindi, il loro più autentico sentire democratico.