La morte di Luca De Filippo, prematura ed inattesa, pone termine alla storia di una dinastia, che, per più di un secolo, ha dominato, in modo incontrastato, le scene del teatro italiano.
Tutti sanno bene come il padre, Eduardo, sia stato il più grande scrittore teatrale del Novecento italiano, insieme a Pirandello, e che il nonno, Eduardo Scarpetta, sia stato l’attore e l’autore più noto della commedia dell’arte del secolo scorso.
È, altrettanto, risaputo che i rapporti, all’interno della famiglia Scarpetta-De Filippo, non siano stati mai esemplari, non solo per ragioni private, ma soprattutto per motivazioni artistiche, dal momento che i due Eduardo rappresentano le voci più antitetiche della drammaturgia del nostro Paese.
Quando, sui banchi di scuola, si fa studiare la differenza fra commedia dell’arte ed arte della commedia, non si può che pensare – immediatamente – ai due artisti napoletani, padre e figlio, Scarpetta e De Filippo, che hanno incarnato ciascuno la storia di uno dei due generi al massimo livello di efficacia artistica e di bellezza nei risultati ottenuti.
Napoli, al di là dello stereotipo facile, è stata per definizione la città della musica, della drammaturgia e delle belle arti: in tale contesto, essa però ha sempre accusato un ritardo, che solo Eduardo De Filippo è stato in grado di farle superare: andare oltre la commedia dell’arte, così come, nel teatro nazionale, analoga operazione aveva compiuto nel Settecento Carlo Goldoni.
Eduardo, orbene, ha fatto transitare Napoli nella modernità, portandola fuori da un genere, appunto la commedia dell’arte, che aveva radici antichissime, pagane ed italiche, che però inevitabilmente tenevano fuori la città partenopea dai grandi indirizzi del teatro del Novecento europeo.
Il matrimonio teatrale fra i De Filippo e Pirandello ha contribuito a rendere, effettivamente, cosmopolita la produzione napoletana, facendo sì che la tradizione venisse riformata in modo sensibile, in particolare nella forma teatrale, oltreché nei contenuti della scrittura.
In tale contesto, Luca, ultimo erede di casa De Filippo, ha contribuito – ancora in vita il padre – ad irradiare in tutto il mondo il verbo di Eduardo, divenendo il primo grande interprete delle opere paterne e facendo sì che la fama di Eduardo, già grandissima, non subisse alcun danno dopo la sua scomparsa, avvenuta ormai trent’anni fa.
Piangendo per la morte di Luca, gli Italiani piangono, quindi, per la scomparsa dell’ultima grande famiglia non solo del teatro, ma dell’arte del nostro Paese.
L’ultimo rigurgito dello spirito creativo del Novecento, ora, lascia il posto definitivamente al nuovo secolo, in attesa che una ventata nuova, ma altrettanto magnifica per spirito artistico, possa far compiere al nostro Paese un ulteriore salto in avanti.
D’altronde, l’arte non è mai mera riproposizione di modelli del passato e lo stesso Luca, finanche quando ha rimesso in scena il repertorio paterno, ne è stato interprete autentico ed innovativo e mai esecutore solo, più o meno, pedissequo degli schemi recitativi di Eduardo.
Riuscirà l’arte italiana, allora, ad uscire dal cul de sac, in cui ora è caduta per la mancanza di talenti, effettivamente, innovativi?
La morte prematura di Luca De Filippo, invero, evidenzia viepiù una simile criticità ed impone una riflessione seria intorno alle politiche culturali del nostro Paese, che hanno sovente affossato la forma più nobile dell’arte italiana: la recitazione.
La stessa famiglia De Filippo, molto spesso, ha intrattenuto rapporti assai problematici con le istituzioni napoletane e nazionali, a dimostrazione che, neanche, la genialità accertata costituisce, come dovrebbe, il migliore viatico per interloquire con chi non ha orecchie per ascoltare.