È evidente a molti che, in questo momento storico, le relazioni diplomatiche fra il nostro Paese e le autorità europee non siano delle migliori, visto che, su diverse questioni, il punto di vista di Roma e quello degli organismi comunitari mostrano divergenze fin troppo sensibili.
Il primo elemento di scontro è stato rappresentato, senza dubbio alcuno, dalla determinazione dei criteri di condivisione dei flussi migratori, quando, nello scorso anno, si pose in tutta la sua drammaticità il problema dell’accoglienza dei flussi migratori, sempre più rilevanti, rivolti verso le nostre coste.
Il secondo fattore di divisione è divenuto, successivamente, già alla fine della scorsa estate, il dato dell’emergenza finanziaria, esplosa in ogni evidenza ai tempi della lunghissima ed estenuante trattativa per il risanamento del debito pubblico greco.
Infatti, la problematica della tenuta dei conti dello Stato ellenico fu avvertita fortemente, anche, dal Governo Renzi, dal momento che, sistematicamente, dalle autorità continentali arrivavano rilievi verso il nostro Esecutivo, che facevano intendere come fossero sotto osservazione gli equilibri finanziari italiani.
Risalta, però, agli occhi di molti un altro dato: le relazioni diplomatiche con Bruxelles non sono mai tendenzialmente identiche, per cui i rapporti si inaspriscono quando siamo prossimi alla campagna elettorale e diventano migliori, invece, quando siamo distanti da un appuntamento importante.
A nessuno sfugge il fatto che, nel corso della primavera, ormai imminente, si voterà nelle più grandi città, da Roma a Napoli, da Torino a Milano, per cui siamo prossimi ad un test di rilievo politico, non solo meramente amministrativo.
Orbene, in tale contesto, non vorremmo che il tema dei rapporti fra Roma e l’Unione Europea venisse condizionato da calcoli elettoralistici di basso livello, per cui, percepiti gli umori degli Italiani contro l’euro e l’Europa, si finge una dialettica artificiosa con gli organismi comunitari solo per imbonire l’elettore di turno distratto, animato da uno spirito marcatamente antieuropeista.
Se così fosse, ci sarebbe un uso strumentale del dibattito in politica estera, che ci piacerebbe non poco.
È giusto, piuttosto, che il nostro Premier dica, apertamente, se l’Europa è matrigna o meno verso l’Italia, perché è legittimo comprendere se, nei prossimi mesi, saremo succubi delle indicazioni dell’Unione o se potremo contare su un potere contrattuale molto accresciuto rispetto a quello degli ultimi anni.
La questione è di vitale importanza, perché ne discende la credibilità del Paese rispetto ai partners continentali: siamo europeisti a giorni alterni ovvero siamo capaci di assumerci le nostre responsabilità, finanche quando diciamo qualcosa di politicamente non corretto verso la Merkel e la Commissione?
Renzi dovrà chiarire, pertanto, la natura dei rapporti fra Governo nazionale e Governo continentale, evitando però le malizie di chi è alla facile ricerca di un consenso, tanto populista quanto fluttuante ed incerto.
Ne sarà capace o torneremo ad essere la nazione, che piega il dibattito politico generale ad interessi, invero, di piccola bottega, che peraltro rischiano di non essere, neanche, concretizzati nel periodo medio-lungo?