di Elio Goka
Già con un editoriale che aveva attraversato Il racconto dell’isola sconosciuta, di Saramago, era stato pubblicato un articolo sul problema dell’immigrazione e degli sbarchi clandestini. Un invito a rendersi prima di tutto conto di quanto la sistematicità e il ripetersi di questa tragedia sia pari alla sua gravità. Una sommità di secoli che si eleva a una velocità di gran lunga superiore ai ripari retorici del nostro tempo. Chi vi opera davvero, deve affrontare il solco tra la sua solitudine e quella di questo popolo in mare e chi potrebbe porvi rimedio, è legato a un filo doppio di necessità e cose nascoste, di certo, le peggiori.
Chi arriva a destinazione è un risultato, qualcuno che si lascia alle spalle una tragedia in mezzo ad altre tragedie, in una grande tragedia. Sappiamo ancora molto poco di uno degli estremi del segmento su cui si sposta quest’esodo in annegamento. La clandestinità che ho potuto conoscere personalmente era tale nel proprio paese (mi riferisco a popolazioni in cerca di spazi all’interno dei propri confini, come in alcuni paesi dell’America latina, per affrancarsi dalla povertà), in un’anomalia che non risparmia nemmeno i disperati che affollano un barcone rischiando di affondare come addosso a una Moby Dick della modernità. In questo caso Achab ha già trovato la sua balena. Il paradosso vuole che cerchi di liberarsene, invece di cacciarla.
Non è che un amaro riscontro, una nera verifica di quello che non è un’origine, ma un effetto. Pure questo ormai rientra nel prontuario in stile mediatico che tra radio e televisioni conduce interventi e analisi intellettuali, critiche, giudizi, in un grande monologo monocorde che dice sempre le stesse cose.
Non so quanto sia utile ignorare che si è scelto di vivere secondo le benevolenze del caos, ma l’ossessione e l’accanimento (forse in malafede) della predica politica secondo cui tutto è affidato alla ricerca e alla speranza di una soluzione che non c’è, sono il faro buio e disabitato che dall’altra parte del mare, dalle spiagge di partenza, quei disperati non possono vedere. Eppure, confidano anche in questo. Bastasse per compenetrarsi dentro un’umanità in cui si è vissuti a lungo, ma che è stata presto dimenticata. Funziona così. È facile dire su chi viene da laggiù. Più difficile è compiere il percorso inverso, fissare l’orizzonte, prendere e andarci, laggiù.
Come per Il racconto dell’isola sconosciuta, anche questa volta vorrei ricordare un frammento della letteratura che mi fa venire in mente il travaglio eterno di queste persone. Una breve descrizione tratta da Grandi speranze, di Charles Dickens. È come se alcuni punti rievocassero alcuni dei loro momenti, almeno quelli che riescono ad arrivare a noi, nella sintesi di quello che si vede, ma non nell’enormità che resta nascosta nel buio delle loro traversate.
“Di nuovo sgusciammo tra le imbarcazioni, evitando arrugginite catene d’àncora, logore gomene, boe dondolanti, affondando o disperdendo per un istante ceste rotte e pezzi di legno galleggiante, fendendo la schiuma di carbone ondeggiante, sotto la polena del John di Sunderland, intento a fare un discorso ai venti (come fanno molti John), o sotto quella che rappresentava la Betsy di Yarmouth dal petto formoso e occhi sporgenti per ben due pollici dalla testa; mentre i martelli battevano nei cantieri navali, le seghe penetravano sibilando nel legno, ignote macchine rumorose lavoravano materiali ignoti, pompe aspiravano acqua da sentine di navi, argani stridevano, navi scendevano verso il mare, e incomprensibili uomini di mare urlavano maledizioni dalle murate delle loro navi agli uomini delle chiatte che le ribattevano.”