La morte dell’attrice Anna Marchesini, affetta da diversi anni da una forma non curabile di artrite reumatoide, rimette al centro delle nostre riflessioni il tema delicatissimo della vita e dei limiti, che noi esseri umani dobbiamo riconoscere alla nostra natura, che non ci ha riconosciuto il beneficio dell’immortalità.
La morte di una persona, ancora giovane rispetto ai parametri della vita media, ci obbliga a vedere in faccia ciò che noi, molto spesso, decidiamo scientemente di rimuovere: la morte, che pure rappresenta il momento finale della vita di ciascuno di noi, per cui è, per tutti, l’attimo che pone fine ad una parabola esistenziale, da cui non vorremmo mai staccarci, neanche quando la vita non ci ha riservato grandi successi o soddisfazioni memorabili.
Purtroppo, esiste quel limite e non possiamo negarlo: da millenni, la religione – in particolare – si sforza di superarlo, ponendo una visione trascendente della natura e dell’essere umano, ma tale visione, che appartiene in forme diverse a tutte le fedi, non rappresenta sovente un approdo sicuro per l’uomo moderno, che – abituato a ragionare ed a dubitare – ineluttabilmente deve ammettere il senso della finitudine del proprio sé, sia corporeo che spirituale.
Eppure, la morte della Marchesini una cosa ci ha insegnato: è possibile provare ironia di se stessi, finanche quando il corpo è sventrato da una patologia aggressiva, a cui nessun farmaco può porre rimedio.
L’attrice umbra, infatti, ha continuato a salire sul palcoscenico, nonostante l’artrite reumatoide di cui era affetta; ha riso lei stessa ed ha fatto ridere gli altri del suo male, come se, in quei sorrisi, si realizzasse la sconfitta più evidente di un nemico oscuro, che non solo ti porta alla morte, ma soprattutto ti porta a vivere fra mille sofferenze gli ultimi giorni della tua esistenza mondana, ammesso che ne esista una celeste.
Finanche, la dimensione del pudore è stata sconfitta: noi tutti siamo portati, naturalmente, a non esporci in pubblico, quando una patologia mina la nostra condizione di vita.
La Marchesini, invece, ha ostentato il suo corpo disarticolato per effetto della malattia; ha mostrato in pubblico una voce incerta, a cui si accompagnava la lucidità di un pensiero integro, quasi a voler dimostrare, a se stessa ed agli altri, che non bisogna vergognarsi di una malattia, che progressivamente ti sottrae la vita, il bene più prezioso di cui ciascuno di noi è dotato.
Pudore, sofferenza, dolore, morte sono tutte categorie della filosofia morale occidentale, che trovano la loro esaltazione quando una personalità mirabile – come, appunto, la Marchesini – è stata capace di farcele conoscere nella loro quotidianità e di farle divenire l’oggetto mirabile della sua arte.
Si può sorridere dei propri difetti, corporei o caratteriali, ma con la Marchesini abbiamo imparato a sorridere, lievemente, della morte e ad accettare, quindi, il senso ultimo del nostro essere, che si concreta in quello spegnimento definitivo delle nostre forze, oltre il quale c’è solo uno spazio sacro di indeterminazione, che lasciamo in eredità a Dio per chi è credente e lasciamo in eredità al Destino per chi, invece, è agnostico o ateo.
Ciascuno di noi ha fatto esperienza della morte di un caro; orbene, nei passi e nelle parole di un attore, che mette in scena la morte sul palcoscenico del suo teatro, rimaniamo sempre in silenzio, come se questa nuova esperienza abbia una dimensione addirittura più profonda di quella, magari, fatta in privato dinnanzi ad un proprio parente.
La morte si vive.
Questo sembra essere stato il principale insegnamento della Marchesini: la morte non come negazione della vita, ma come sublimazione dell’imperfezione umana e, perciò stessa, come atto vitale “totale”, “integrale”, nel quale si restituisce il senso della natura, che trova un suo equilibrio vitale, quando una forma di vita precaria scompare per lasciare il posto ad una futura e diversa.
Come vorremmo insegnare questo valore a quei giovani, che preferiscono morire per uccidere gli altri in nome del loro falso Dio!
Ma, il fine dello spettacolo, come nobile arte umana, è riservato a pochi privilegiati e noi, attraverso l’esperienza di vita della Marchesini, abbiamo compiuto un atto catartico analogo – e non meno importante – a quello che gli antichi Greci restituivano attraverso i versi dei poeti tragici.