Cinquant’anni di storia napoletana rischiano di svanire per sempre.
Un soggetto di qualità è la base per un’ottima fotografia e la città partenopea è tra le più fotogeniche al mondo. Su questo, dovremmo essere tutti d’accordo.
Poi, c’è la mano di chi effettua lo scatto. Nel nostro caso, le dita di Riccardo Carbone, il primo reporter de Il Mattino. Anzi, l’inventore della figura del fotoreporter a Napoli. Colui che convinse, negli anni ’20 dello scorso secolo, Scarfoglio e Serao, ad inserire un numero sempre maggiore di immagini, tra le pagine del loro giornale.
Ha fotografato la vera Napoli, quella che non sorride mai, come si legge spesso, quando si parla di Carbone. Non quella città descritta come ruffiana, incantatrice, adulatrice, pronta a schierarsi dalla parte del ‘padrone’ di turno. No, la sua Partenope era sobria e seria.
Sì, perché, in quegli anni, i volti erano ancora facce e non ridicole maschere di un grottesco teatro che la modernità ci sta costringendo a vivere.
Insomma, cinquecentomila scatti, mai banali; spesso, fuori inquadratura, per meglio cogliere un’emozione, uno stato d’animo.
Emblematica la foto che documentò la costruzione dell’immagine moderna della città (un edificio in demolizione, con le silhouettes degli operai sul tetto e in primo piano il motto mussoliniano «La parola a Sua Maestà il Piccone»), capace di sostituire un trattato di edilizia fascista e quella dell’immediato sbriciolamento civile della società, quando le bombe sfigurarono il Maschio Angioino.
Ma l’immagine più suggestiva, senza dubbio, è quella sequenza di miserabili, stracciati, mezzi nudi, logori, coi piedi nudi: un gruppo di venticinque ragazzini che Carbone, intenzionalmente, non dispone in posa, ma riesce a cogliere nel momento in cui qualcuno, o qualcosa, attira l’interesse di alcuni di loro, facendogli volgere lo sguardo verso destra, all’esterno dell’inquadratura appunto. Non dimenticava mai che lavorava per un quotidiano e non per se stesso; se ne stava un po’ distante, ma non nascosto, con lo sguardo del vero inviato speciale nella sua città, che racconta Napoli ai napoletani.
E la racconta pure al mondo intero: l’immagine della squallida casa di tolleranza del dopoguerra, uno spazio di infinita tristezza, un vortice di miseria, sprovvisto anche del minimo malapartiano rigurgito di cupa sensualità, sarà poi la copertina di “Napoli ’44”, il notissimo libro di Norman Lewis.
Potremmo andare avanti ad oltranza, a raccontare delle sue fotografie: dei sciuscià, dei suonatori ambulanti, dei vicoli, della Loren, di Chaplin, dello stadio, degli americani, degli emigranti, del Vietnam libero, dei lupanari, di Ungaretti…di Eduardo.
Il bianco e nero di Riccardo Carbone va dritto dritto al cuore: informa e, allo stesso tempo, contagia un sentimento.
Si può lasciare in pasto alle muffe tutto questo?
https://www.eppela.com/it/projects/11092-archivio-carbone