Da sempre siamo la città delle contraddizioni, come avremmo potuto pensare di avere una squadra uniforme e coerente?
In realtà coerente lo è, perché non c’è una partita che sai come andrà a finire. E non mi dite che è il calcio ad essere così. Perché il calcio è così a Napoli. E noi non riusciamo ad accettarlo fino in fondo e ad accontentarci, perché poi arriva sempre la poesia a ricordarci chi siamo.
Ma partiamo dal principio. Domenica 27 Dicembre. Il Genoa sta clamorosamente battendo la Juventus campione d’Italia per 3-0, e allora, dopo qualche minuto dall’inizio della ripresa, Allegri decide di far entrare in campo Gonzalo Higuain, per provare a cambiare l’andamento del match, ma, come noto, le cose continueranno allo stesso modo e la squadra rossoblù realizzerà l’impresa di battere la capolista. Appena il 9 bianconero entra in campo, però, dagli spalti di Marassi arrivano solo fischi, e ad un certo punto, parte il coro “Napoli Napoli”.
Eccola la prima poesia, un popolo intero che non ha subito alcun tradimento diretto, ma che lo sente comunque suo. Sia perché il gemellaggio tra Genoa e Napoli è uno dei più forti e meravigliosi dell’intero panorama calcistico, sia perché certi trasferimenti fanno male al calcio intero.
Un giocatore amato, re di una città, che si mette dalla parte dei più deboli (da un punto di vista prettamente calcistico), si erge a paladino dei buoni contro il palazzo, e poi decide di andarci dentro, a quel palazzo; sceglie di stare dalla parte dei forti e vincenti, di essere uno dei tanti, di avere il portafoglio pieno, così come la bacheca, ma il cuore vuoto. Allora fischi, come se non ci fosse un domani. E inni alla città di cui era re, per ricordargli che certe cose non si dimenticano, e che mai più verrà ricordato come colui che ci ha fatto sognare, ma per sempre come chi ci ha traditi.
La giornata passa, il Napoli ha la possibilità di accorciare sulla Juventus il giorno dopo, in casa contro il Sassuolo. L’attesa si fa forte, la gente ci crede, ma la partita va male. Il Napoli dà forti segni di risveglio dopo qualche partita abulica, ma non riesce nemmeno stavolta a portare a casa i tre punti. Quando Callejon ha sul piede il pallone della vittoria, si pensa che la stagione stia finalmente per svoltare, invece il nostro destino di illusi e perdenti si manifesta in quel palo che ci strozza ancora una volta in gola un urlo che più liberatorio non sarebbe potuto essere. Lo sconforto è totale, la rabbia anche. La gente sbraita e qualcuno fischia.
Poi, inizia una poesia meravigliosa. Nei pressi dell’area di rigore esattamente sotto la Curva A, Cannavaro ed Hamsik si scambiano le maglie. Arriva qualche applauso dal settore, che si trasforma in boato quando l’ex capitano si gira e ricambia. Proprio in quegli attimi, in Curva B, compare uno striscione che recita: “Canta con noi, mio capitano!” Cannavaro è emozionato, va verso la curva, e inizia a cantare come un bambino, a saltare come un tifoso, è lì e si gode lo spettacolo e ne fa parte nello stesso momento.
A fine partita, egli stesso, per rispondere a una domanda di un giornalista sul rapporto tra lui e i tifosi napoletani, dirà: “Non esiste nessun rapporto, perché sono semplicemente uno di loro.” Alcuni legami, alcuni amori, vanno oltre i trasferimenti, e non tutti quelli che vanno via sono dei traditori. La poesia va avanti per molti minuti, la gente non scende più dallo stadio, rimane lì, con gli occhi lucidi e un brivido lungo tutto il corpo. È un momento che potrebbe andare avanti per ore, non si smetterebbe mai di piangere, di sognare. E quel momento, quella poesia, ti ricorda quanto il popolo Napoletano, con tutte le sue contraddizioni, sia meraviglioso. Quanto sia sognatore, sebbene illuso. Allora è vero che meritiamo di più. Non lo so di chi è la colpa, a chi dobbiamo chiederlo questo di più. Ma meritiamo più cattiveria, più impegno, più ardore, più amore, più vittorie. Meritiamo di più.