La crisi politica, che stiamo vivendo in questi giorni, affonda le sue radici in un passato remoto, che va ben oltre la sconfitta renziana dello scorso 4 dicembre.
I partiti italiani, delegittimati all’indomani di Tangentopoli, hanno tentato di rinascere in vari modi durante la Seconda Repubblica, ma sono stati – per lo più – dei meri cartelli elettorali, destinati a sciogliersi con la scomparsa o la caduta in disgrazia del loro leader.
Infatti, l’idea di istituzioni “leggere” e, dunque, di partiti, che non avessero gli apparati burocratici del recente passato, ha fatto sì che la mediazione sociale, da loro interpretata, venisse sempre meno e si imponesse una visione leaderistica – o padronale – dei partiti stessi, che ne ha scalfito, non poco, l’immagine ed il peso politico.
È ineluttabile mettere in mostra come, nel PD, le differenze fra Renzi o D’Alema siano ben più ampie di quelle fra lo stesso Premier e Berlusconi, per fare un esempio calzante.
Medesima cosa può essere detta di Forza Italia ed, a breve, scopriremo che, finanche, fra i Grillini le differenze non sono da poco, visto che fra Di Maio e Di Battista non irrilevante è la diversità di approccio all’impegno politico, molto più istituzionale il primo, molto più movimentista il secondo.
Eppure, questi cartelli elettorali dovrebbero assicurare la governabilità al Paese, cosa che appare – dunque – meramente utopica per una nazione, come la nostra, abituata sin dal Medioevo alla contrapposizione fra Guelfi e Ghibellini.
In tale contesto, il tentativo renziano di modifica profonda della Costituzione è apparso non solo velleitario, visti i risultati, ma soprattutto pleonastico, perché, rimanendo immutata la cornice storico-culturale, nessuna riforma costituzionale può, di per sé, dare alla nazione ciò che gli uomini non sono in grado di dare per effetto della loro autonoma iniziativa.
È ovvio, pertanto, che nei prossimi mesi ci troveremo in presenza di un’instabilità sempre più forte, che potrà trovare parziale soluzione, solo, nel ricorso alle urne, che però non può avvenire, se prima non si scioglie il nodo della riforma elettorale per Camera e Senato e se non si offrono segnali al Paese evidenti di ripresa economica.
E siamo, dunque, al nodo del problema: ma, gli Italiani vogliono le riforme o il pane?
Appare evidente a molti che il fallimento dell’iniziativa renziana sia originato, in particolare, da un difetto di comprensione della società da parte del nostro Premier uscente.
L’antipolitica non è più l’obiettivo primario della pubblica opinione nazionale, ma lo è – piuttosto – la ricerca di condizioni economiche più vantaggiose per tutte quelle fasce sociali, giovani soprattutto, che sembrano tagliate fuori da un orizzonte di benessere e di opulenza.
In tale contesto, il taglio di una Camera non è apparso appetibile da chi, quotidianamente, deve combattere con la povertà e con la mancanza di un’ipotesi di futuro, almeno, ragionevole.
Pertanto, è opportuno che si risolva la crisi politico-istituzionale del Paese, partendo dai dati fondamentali dell’economia, creando una prospettiva di futuro, almeno, plausibile per chi – invece – vede davanti a sé solo oscurità.
Altrimenti, qualsiasi intervento di ingegneria costituzionale apparirà, sempre, una mera ricerca di consenso autoreferenziale da parte dei ceti dirigenti e ciò, ovviamente, non potrà che acuire non solo la crisi di credibilità delle istituzioni, ma amplierà la distanza fra élite e popolo, che in una democrazia non è mai un fatto auspicabile, a meno che non si voglia fare la fine della Repubblica di Weimar.