“Napoli odora di legno bruciato”. Napoli era ridotta a un cumulo di macerie, la popolazione era costretta in condizioni di povertà estrema, falcidiata dalla mancanza di generi di primo consumo e dal proliferare inarrestabile del mercato nero, devastata dalle epidemie, dalle ferite della guerra esibite da cicatrici visibili, difficili da rimarginare, con il sangue ancora a scorrere a fiotti per le strade e per i vicoli polverosi. Una città decadente, piombata in una dimensione medioevale, in cui ci si poteva solo ingegnare per non morire di stenti, anche a costo di decimare la popolazione felina o abbandonandosi all’illegalità, ai furti, alla prostituzione.
Metafora di questo scenario desolato era l’avvocato Lattarullo, ridotto a vivere di stenti anche per l’assenza di occasioni professionali, che si era inventato il ruolo di “zio di Roma”, personaggio bizzarro che dava conforto durante i funerali ai parenti del defunto. La famigerata arte di arrangiarsi si trasformava, così, in una nuova forma di resistenza: il mestiere di sopravvivere. “Ragazzini cenciosi con occhi rapaci: gli scugnizzi napoletani. Ancora una volta non ho potuto fare a meno di notare l’intelligenza, quasi il tratto intellettuale delle loro espressioni”.
Lo sguardo di Norman Lewis su quell’umanità dolente, ferita gravemente ma non ancora piegata, oscillava tra la critica sociale, seppur ironica e garbata, e la commiserazione che, invece, sfociava in una sorta di umana comprensione, quasi in una specie di complicità intellettuale mista a compassione. Tanto è vero che lo stesso Lewis ha, poi, dichiarato che gli sarebbe piaciuto rinascere in Italia, avendo avuto modo di apprezzare l’indole indomita della gente e la ferma volontà di non arrendersi nemmeno in quelle condizioni disperate.
Il meraviglioso “Naples ‘44”, con evidenti rimandi alla Napoli milionaria di eduardiana memoria, è un libro fondamentale che è riuscito meglio di tanti altri a rappresentare una città complessa, eterogenea, caleidoscopica. Norman Lewis, abile nel conservare la giusta distanza dei fatti per non compromettere la genuinità della narrazione, fu bravo a carpirne i più intimi segreti, penetrare a fondo nella mentalità della sua popolazione, comprenderne i meccanismi di organizzazione e funzionamento.
Prima di pubblicare il libro, l’ufficiale inglese ha conservato per oltre trent’anni i ricordi e gli appunti del breve periodo trascorso nella città partenopea al termine della seconda guerra mondiale. Decise di farvi ritorno nel 1977 per alcuni giorni, giusto il tempo di recuperare le sensazioni, gli odori e le voci che solo una città straordinariamente complicata e irriducibilmente contraddittoria sa restituire a un attento osservatore dalla sensibilità spiccata come Lewis.
Il libro (pubblicato in Italia da Adelphi), inizialmente, si rivelò un clamoroso flop commerciale. Col tempo, è diventato un classico della letteratura, un’opera fondamentale per raccontare una Napoli che sopravvive nei decenni, confermandosi l’immutabilità di certi tratti antropologici dei partenopei, da non confondere con le interpretazioni o, peggio ancora, le distorsioni lombrosiane.
“Naples ‘44”, una sorta di prequel de “Il mare non bagna Napoli” della Ortese, altro formidabile capolavoro di pensiero e di cifra stilistica, rintraccia ne “La pelle” di Malaparte una specie di opera gemella. Laddove in Malaparte prevale il sarcasmo, in Lewis prende il sopravvento lo stupore.
Il registra Francesco Patierno, oggi, ha saputo riversare la scrittura di Lewis in un suggestivo film-documentario dal grande impatto visivo. I volti sofferenti della gente colta al culmine della sofferenza hanno un qualcosa di pasoliniano, la città viene astratta dalla sterile contrapposizione contemporanea tra la propaganda oleografica e il racconto stereotipato da romanzo criminale. “Tutta Napoli era distesa sotto di noi come un’antica mappa sulla quale l’artista avesse disegnato con minuzia quasi eccessiva i molti giardini, i castelli, le torri e le cupole. Per la prima volta, aspettando il cataclisma ho ammirato lo splendore di questa città vista da una distanza che la ripuliva della sudicia crosta di guerra. Per la prima volta, ho capito quanto poco europea e quanto invece orientale essa sia“. Insomma, Napoli non è né Paradiso crociano, né l’Inferno di matrice gomorriana ma uno splendido Purgatorio inquinato dal contesto, dalla brutalità dei tempi moderni, dalla miseria umana.
La pellicola si muove tra passato e presente, con frequenti citazioni dei film di Cavani, Loy, Rosi, Rossellini, e la voce di Adriano Giannini (nella versione originale, è dell’attore Benedict Cumberbatch) a legare tutto il racconto. Come in uno strano scherzo del destino, a una tragedia ne segue immediatamente un’altra: l’eruzione del Vesuvio del marzo ’44, l’ultima che fortunatamente si ricordi. Per Lewis, lo spettacolo più maestoso e terribile mai visto: fuoriusciva dal cono del vulcano un’enorme massa grigia simile, con le sue protuberanze, a un cervello pulsante.
Napoli viene dipinta come una tela divisa in due: da un lato il quadro è a tinte fosche, dall’altro presenta disegni naif e ironici come il Vesuvius di Warhol. A riprova che una realtà così complessa non può tollerare interpretazioni manichee, superficiali e/o interessate.
Napoli, in definitiva, è come un personaggio pirandelliano: una, nessuna e centomila. È tante cose insieme che, a volte, devono combinarsi e, altre volte, entrano in conflitto. Quando prevale l’armonia, il tratto estetico soppianta tutto il marcio, tutto il sudiciume che soffoca la parte dinamica della città, composta da una minoranza irriducibile che, come Norman Lewis, ancora insiste nel respingere l’immagine di un luogo senza speranza, abitato e dominato da figure mefistofeliche feroci e invincibili.