Tre anni dopo, il ricordo è ancora nitido.
Il viaggio verso Roma, la speranza di vincere un’altra Coppa Italia, gli amici, la condivisione di ogni attimo.
Fino all’arrivo allo stadio è tutta poesia.
Poi, a poche ore dal fischio di inizio, si iniziano a rincorrere strane voci.
“Hanno sparato ad un tifoso del Napoli.” La notizia appare surreale sin da subito, non pare credibile, eppure l’atmosfera diventa immediatamente strana. La tensione si avverte in ogni settore, ma non è più quella tensione mista ad adrenalina che ti accompagna verso il fischio d’inizio. No, è qualcosa di diverso. È angoscia allo stato puro.
Ad ogni modo, la partita si gioca. E quel tifoso a cui avrebbero sparato? Le notizie rimangono relegate in un limbo di incertezze dal quale si uscirà soltanto una volta fuori dallo stadio. Il Napoli vince la partita, 3-1, e porta a casa la quinta Coppa Italia della sua storia.
Nessuno di noi, però, ha davvero voglia di festeggiare.
Alla fine, la notizia è arrivata. Ciro Esposito ha perso la vita, sparato da un tifoso della Roma. Si susseguono processi mediatici, servizi, speciali di ore e ore in tv. Ma non su quanto possa essere brutto andare a vedere una partita di calcio, e morire perché Napoletano.
No. Il processo viene fatto proprio a Napoli e ai Napoletani, agli ultras che chiedevano di non giocare la partita in rispetto alla morte di Ciro, e addirittura viene messo sotto l’occhio del ciclone lo stesso Ciro, insieme alla sua famiglia. Facile trovare nei Napoletani il capro espiatorio di tutta la situazione, come quel giorno d’agosto e quella storia del treno devastato ma mai ritrovato (caso vuole, sempre in viaggio verso Roma). Strumentalizzazioni. Teatrini del nulla. Nessuno che dica qualcosa sull’essere immondo che ha deciso di togliere la vita a un Napoletano solo perché tale.
Nessuno.
E Ciro è morto tante volte, in questi tre anni.
Ogni volta che se ne parla, nessuno fa mai riferimento a chi lo ha sparato, alla sua vita strappata via mentre rincorreva un sogno, ma si fa solo retorica, addirittura accusando la madre di lucrare sulla morte del figlio.
C’è addirittura chi ha intonato cori beceri contro di lui, c’è addirittura chi ha fatto una colletta per sostenere le spese legali del suo assassino. Però qui niente processi mediatici.
Niente retorica.
Tutto nella norma.
Del resto, viviamo in un paese dove Muntari abbandona il campo perché stanco di essere vittima di razzismo, e il giudice sportivo lo squalifica.
Tre anni dopo, niente è cambiato.
E forse nulla cambierà mai.
Siamo e saremo sempre il capro espiatorio d’Italia, e le nostre rivincite possiamo prendercele solo sul campo.
Questo non ci ridarà Ciro, ma niente può ridarcelo.
Viviamo con la consapevolezza che lui è con noi ad ogni partita, al San Paolo o in trasferta, a Madrid o a Lisbona.
E se, come meriteremmo, saremo in grado di arrivare secondi in classifica, la nostra felicità sarà la sua, e la sua sarà la nostra, sebbene i suoi occhi non potranno più dircelo come una volta. Ciao Ciro.