Il trasferimento di Bonucci dalla Juve al Milan dimostra – se ce ne fosse, ancora, bisogno – che nel calcio odierno le bandiere non esistono.
Il difensore ex-juventino è stato, infatti, per 7 anni il protagonista dei successi degli Agnelli ed, oggi, con il suo passaggio al club, che è stato di Berlusconi, ha offerto un segnale evidente del fatto che i calciatori – tranne pochissimi – non sono più legati ai colori sociali delle loro squadre di appartenenza.
Solo, Totti è stato vincolato per due decenni al suo club, la Roma, rinunciando al trasferimento in società ben più prestigiose di quella capitolina, che gli avrebbero consentito di vincere molti più trofei di quei pochi che, invece, ha vinto rimanendo nella capitale.
Sono scelte ben diverse, queste ultime, che però condizionano di riflesso la mentalità dei tifosi.
Il calcio, infatti, è sempre stato una questione di amore e di affetti, per cui ogni tifoso rimane legato alla sua prima squadra, indipendentemente se arrivano o meno i risultati sportivi.
Vedere, per altro verso, che i calciatori non ragionano secondo un parametro affettivo, ma in base ad un criterio economico o di sviluppo di carriera, fa molto male ed induce lo sportivo ad allontanarsi sempre più da un fenomeno, che rischia di divenire meramente un’azienda, priva di un’anima sociale.
È ovvio, quindi, che il trasferimento di Bonucci al Milan, come quello di Higuain alla Juve della scorsa estate, finiscano per attirare le attenzioni in modo morboso: perché sacrificarsi per la propria squadra del cuore, quando i paladini della stessa, in primis, ragionano non con il cuore, ma con la mente rivolta al portafogli?
Per tal via, un evento poetico per definizione – come è quello sportivo – rischia di divenire ben più prosaico agli occhi dell’Italiano medio, che quotidianamente combatte contro la disoccupazione o i bassi salari, venendo indotto dunque ad allontanarsi da un mondo di lustrini, come quello del calcio, che disegna l’esistenza di un Paese ben diverso da quello che si svolge all’angolo di strada o in molti focolari domestici.
Si dirà che il calcio è un’azienda e che segue le logiche del capitalismo tout court.
Certo, le dinamiche capitalistiche non possono non essere irrilevanti, ma a volte queste dovrebbero lasciare il posto al sentimento di appartenenza o, comunque, ad altre logiche ben più vicine al sentire popolare.
Forse, nei prossimi anni si tornerà alle bandiere e potremo avere tanti altri Totti o Zaccarelli, che hanno rinunciato ai trofei ed ai soldi, pur di non tradire i propri colori sociali?
O, forse, la componente aziendale prenderà il sopravvento, in modo definitivo, su quella affettiva, per cui solo i tifosi continueranno ad avere a cuore i destini della propria squadra, in qualsiasi categoria essa giochi?
Certo è che noi continuiamo ad emozionarci davanti ad una bella giocata e gradiremmo che i valori possano trionfare sul vile danaro o su considerazioni di altro tipo, che mortificano i sentimenti dell’umile e semplice sportivo.