Il Cimitero delle Fontanelle è l’antico ossario della città di Napoli, si sviluppa per circa 3000 mq e si trova nel cuore del Rione Sanità, uno dei quartieri più ricchi di storia e tradizioni, appena fuori dalla città greco – romana, nella zona scelta per la necropoli pagana e più tardi per i cimiteri cristiani.
Il sito custodisce, da quattro secoli, i resti di coloro che non potevano permettersi una degna sepoltura e, soprattutto, delle vittime delle grandi epidemie che hanno più volte colpito la città.
In quest’area, situata tra il Vallone dei Girolamini a monte e quello dei Vergini a valle, erano dislocate numerose cave di tufo, utilizzate fino al 1600, per reperire il materiale, il tufo, appunto, per costruire la città.
Lo spazio delle cave di tufo fu usato a partire dal 1656, anno della peste, flagello che provocò almeno trecentomila morti, fino all’epidemia di colera del 1836.
Non solo, a tali resti si aggiunsero nel tempo anche le ossa provenienti dalle cosiddette “terresante” (le sepolture delle chiese bonificate dopo l’arrivo dei francesi di Gioacchino Murat) e da altri scavi.
Il canonico Antonino De Jorio, nel 1851, direttore del ritiro di San Raffaele a Materdei, racconta che verso la fine del Settecento tutti quelli che avevano i mezzi lasciavano disposizioni per farsi seppellire nelle chiese. Qui, però, spesso non vi era più spazio sufficiente; accadeva, allora, che i becchini, dopo aver finto di aderire alle richieste ed aver effettuato la sepoltura, a notte alta, posto il morto in un sacco, se lo caricavano su una spalla ed andavano a riporlo in una delle tante cave di tufo.
A dir il vero, già il toponimo Sanità, come ebbe a spiegare il canonico Gennaro Aspreno Galante, sarebbe da ricondurre ai molti miracoli che si ottenevano sulle tombe dei santi sepolti, ma anche per la salubrità del luogo. Il quartiere che si estende tra via Foria e la collina di Capodimonte ha sempre avuto dei segni distintivi nell’orografia come nell’urbanistica, nella storia come nella cultura.
Il nome delle Fontanelle deriva dalla presenza di abbondanti sorgenti e fonti d’acqua in questa parte delle città, in una stagione in cui era rara l’acqua a Napoli.
La valle dei Vergini prende il nome da una fratria religiosa greca, quella degli eunostidi, dedita alla temperanza e, soprattutto, alla castità.
Tra storia e leggenda la singolare vicenda di Eunosto, giovane di bell’aspetto che, suo malgrado, fece innamorare Ocna. La ragazza, figlia di un magistrato, corteggiò a lungo il fanciullo, senzaottenere alcuna risposta. Infine, travolta dalla passione, tentò di sedurlo con una vera e propria aggressione, ma Eunosto reagì bruscamente e si difese con la forza. Ferita nell’orgoglio oltre che nel corpo, Ocna raccontò ai fratelli d’esser stata vittima di un tentativo di stupro e i due la vendicarono uccidendo il ragazzo.
Quando, poco dopo, si seppe la verità, gli assassini furono incarcerati e la donna si uccise, mentre i cittadini vollero tributare un omaggio ad Eunosto dedicandogli un tempio.
Prima di intraprendere questo percorso, un consiglio: fate un lungo respiro.
Qui, si refriscano ll’anem ‘o Priatorio: quarantamila cape ‘è morte, teschi allineati e impilati, innumerevoli resti anonimi compressi sotto il piano di calpestio; ossa per almeno quattro metri di profondità.
Entrando ci si fa il segno della croce, si tocca un teschio, si aspetta come se dovesse arrivare una particolare energia. Le cave sono umide, le capuzzelle sudano acqua purificante, emanazione dell’Aldilà, si dice.
Qualcuna si fa riconoscere subito, qualcun’altra aspetta di venire in sogno. Cercano la pace che solo le preghiere di chi è in terra può dare. Anime pezzentelle, poverelle, ma non basta ancora, bisogna ripeterselo in mente finché non si sprigiona tutta la pietà che tiene dentro: l’abbandono, la dimenticanza, quel senso disperato di misericordiosa partecipazione.
L’adozione è umana oltre che religiosa, un rito di compassione.
Resti senza storia e senza nomi, tranne che per due, Filippo Carafa, conte di Cerreto dei duchi di Maddaloni, e di sua moglie, che la credenza popolare vuole soffocata per uno gnocco. Li si distingue facilmente, sono gli unici di cui resta l’intero scheletro, vestiti e deposti nelle bare.
Il silenzio, l’enormità degli spazi illuminati da una luce avvolgente, la litania delle preghiere: sembra di trovarsi protagonisti di una tragedia greca. Fasci di luce generati dalle poche fessure si stagliano in maniera magistrale sui corpi, sottolineando i pochi dettagli, lasciando in un tetro chiaroscuro tutto il resto.
Il ramo centrale di questa suggestiva cava è ben illuminato e mette in risalto l’altare delle tre croci, la statua di San Vincenzo e la piccola cappella. Appaiono in ombra le ossa degli appestati e i banchi delle preghiere. Ai piedi di San Gaetano avanzi di due corpi e un pezzo di leggenda: uno sposo scettico, una sposa sfortunata e un capitano che compare al banchetto e li fa morire tutti di paura.
La leggenda del Capitano.
“La prima versione ci racconta che una giovane promessa sposa era molto devota al teschio del capitano, e che si recava spesso a pregarlo ed a chiedergli grazie. Una volta il fidanzato di lei, scettico e forse un po’ geloso delle attenzioni che la sua futura moglie dedicava a quel teschio, volle accompagnarla e portandosi dietro un bastone di bambù, lo usò per conficcarlo nell’occhio del teschio (da qui l’aition dell’orbita nera), mentre, deridendolo, lo invitava a partecipare al loro prossimo matrimonio.
Il giorno delle nozze apparve tra gli ospiti un uomo vestito da carabiniere. Incuriosito di tale presenza lo sposo chiese chi fosse, e questi gli rispose che proprio lui lo aveva invitato, accecandogli un occhio; detto ciò si spogliò mostrandosi per quel che era… uno scheletro! I due sposi e chissà quanti altri invitati morirono sul colpo”.
L’altra versione raccolta da Roberto De Simone, mette in scena una leggenda nera popolare: “un giovane camorrista, donnaiolo e spergiuro, aveva osato profanare il cimitero delle Fontanelle, ivi facendo l’amore con una ragazza. Ad un tratto sentì la voce del capitano che lo rimproverava ed egli, ridendosene, rispose di non aver paura di un morto. Alle nuove imprecazioni del capitano, il temerario giovane lo aveva sfidato a presentarsi di persona, giurando ironicamente di aspettarlo il giorno del suo matrimonio (e intanto giurando in cuor suo di non sposarsi mai). Però il giovane, dimentico del giuramento, dopo qualche tempo si sposò. Al banchetto di nozze si presentò tra gli invitati un personaggio vestito di nero che nessuno conosceva e che spiccava per la sua figura severa e taciturna.
Alla fine del pranzo, invitato a dichiarare la sua identità, rispose di avere un dono per gli sposi, ma di volerlo mostrare solo a loro. Gli sposi lo ricevettero nella camera attigua, ma quando il giovane riconobbe il capitano fu solo questione di un attimo. Il capitano tese loro le mani e dal suo contatto infuocato gli sposi caddero morti all’istante”.
La particolarità di tale teschio, posto all’interno di una teca, è la sua lucidatura: mentre gli altri crani sono ricoperti di polvere, quest’ultimo è infatti sempre ben lucidato, forse perché raccoglie meglio l’umidità del luogo sotterraneo che è stata sempre interpretata come sudore. Se domandiamo ai devoti, ci diranno che quell’umidità è sudore delle anime del Purgatorio.
Certo, il rapporto della città di Napoli con la morte è un punto di domanda che troviamo in ogni suo angolo. A Napoli la morte è l’altra faccia della vita: non si scaccia, ci si allea per averne vantaggio.
Le anime purganti sono il legame con l’aldilà, quelle che guidano e proteggono chi è ancora in vita.
Un itinerario turistico irrinunciabile.