di Mario Piccirillo
All’uscita dal cinema piove. La macchina in un parcheggio lontano, condiviso con una folla di gente che di lunedì passa la serata in un mega-centro commerciale.
Non abbiamo ombrelli, e quella mancanza ce la leggiamo sui musi storti, nella consapevolezza che – ebbene sì – di lì a poco ci saremmo bagnati. Il fatto è che fino a qualche minuto prima Tom Hardy, con quella faccia alla Tom Hardy che farebbe diventare cazzuta anche una mattinata di bricolage, aveva appena finito di rincorrere uno ad uno i bombardieri nazisti a bordo di uno Spitfire grosso come il mio AtalaUno del liceo, fottendosene – inarcando le sopracciglia alla Tom Hardy – del carburante quasi esaurito, fino a planare a motore spento su una spiaggia nei pressi di Dunquerque, e farsi catturare dal nemico senza dire una parola, solo con quella faccia lì.
Penso ai mie nonni, che la guerra l’hanno fatta entrambi. E io, nel frattempo, sto intascando l’iPhone per salvarlo dall’acquazzone. Un attimo fa ero inebetito dalla bellezza del Cinema, dentro una guerra mediata dall’arte così bene da farmi ripensare a mio nonno. E ora ne sono fuori, con i sensi appagati e una lezione mandata giù a calci in faccia.
Dunkirk, a dirla tutta, è uno di… (mio dio sto per scriverlo davvero!) è uno di quei “film che andrebbero proiettati nelle scuole”. In uno di quei luoghi, cioè, dove decine di puberi riescono a far casino irrispettoso mentre guardano robine leggere e sciocche come Schindler’s List. Servirebbe a supporto, magari un nonno (anzi, un bisnonno, mi sa) chiamato a spiegargli che la guerra è davvero quella cosa lì. Che non sono effetti speciali, che non è un videogioco. Che quello di Nolan è quasi un documentario, per quanto meticolosamente riesca a trasmettere il terrore, e il rumore, e la fatica, e la merda della guerra. Che la nostra storia di gente che di lunedì sera va al centro commerciale è in realtà fondata sulla vita di ragazzi che ad un certo punto, assordati, si buttano a terra con la testa tra le mani e la faccia nella sabbia, aspettando che le bombe piovano in sequenza cadenzata, una ad una, nella speranza che salti in aria il vicino e il destino ti permetta di vivere qualche altra ora di quella follia. Dunkirk è, infatti, un film sulla sopravvivenza e le sue dinamiche. E, come dice uno dei soldati ad un passo dalla morte in uno dei rari dialoghi del film: “La sopravvivenza è una merda”. Perché riduce l’uomo a una bestia egoista e impaurita, e poco altro. La Storia è solo un palcoscenico. La lezione (sì, i grandi film ne regalano sempre qualcuna) è in verità un’altra, se volete alimentata da una coda di paglia generazionale: siamo pasta frolla, molli e viziati. Ogni tanto, per sanità mentale, fa bene pensare a quanto siano stupide le nostre lamentazioni quotidiane. Mio nonno non era mica Tom Hardy, ma ha fatto la guerra. Io, noi, spero i nostri figli, no. E tanto basta, per quanto mi riguarda.
Ora, dubito che in una scuola italiana abbiano un Imax, è un miracolo se hanno le aule. In Campania ce n’è uno solo, ad Afragola. Ma se c’è un film che ripropone a tremila decibel l’esigenza di scendere da casa, scegliere una sala adeguata e accettare la proposta artistica così per come è stata creata, beh, quello è Dunkirk. Il pippone tecnico ve lo risparmio, se volete capire perché va visto su uno schermo alto come una palazzina e con un impianto audio capace di portarti alla sordità, leggete qui:http://www.ilpost.it/2017/09/01/dunkirk-cinema-formato-pellicola-70-mm/ ; e qui:http://www.ilpost.it/2017/09/02/dunkirk-suoni-colonna-sonora/ .
Però, poiché questo pezzo nasce dal proposito di spingervi al cinema con una certa urgenza, un paio di cose vanno dette: non è un film d’assedio come gli altri, perché Nolan è… beh, Nolan è Nolan! Lo stesso evento è raccontato in un intreccio di timeline e punti di vista: da terra, dalla spiaggia il racconto di una settimana; dall’acqua, un giorno nella barca “civile” che attraversa la Manica per andare in soccorso dei soldati; dal cielo, un’ora in cui Tom Hardy prende a calci in culo l’aviazione tedesca. La chiave è il tempo. Le tre storie vengono scomposte e ricomposte in parallelo, a volte sovrapposte, nell’irrimediabile percezione della relatività temporale (ve lo ricordate Inception, sì?). Fino a farle congiungere e combaciare, con una puntualità che vorresti solo abbracciare il regista forte forte, per gratitudine. Intanto la colonna sonora si avvita su se stessa come un cavatappi (un’ illusione acustica studiata: si chiama “scala Shepard” e si ottiene suonando la stessa scala su ottave diverse in loop) dando la percezione di un tono sempre in ascesa, e costruita da Hans Zimmer sulla base di un ossessivo ticchettio d’orologio. In una parola: l’ansia.
E poi ci sono le cose che… non ci sono. Ed è come quando leggi un bel libro, e ti accorgi che trovi tipo tre aggettivi in 20 pagine, e il testo è asciutto e per questo ancora più potente per sottrazione. In Dunkirk non c’è il flashback del piccolo Tom Hardy che sogna di diventare pilota da caccia perché il papà è un eroe di guerra. Non c’è lo stacco sulla fidanzata del povero soldato che ormai lo crede morto, e si rifà una vita al paese. Non c’è l’abusato scontro tra l’ufficiale buono e l’ufficiale cattivo, che poi alla fine vince quello buono. Niente. Anche il sottotesto in chiave eroica e patriottica è ridotto al minimo: la salvezza che arriva da mare grazie al sacrificio dei marinai “civili” inglesi è lo spunto cinematografico che porta questo spicchio di Seconda Guerra Mondiale su una sceneggiatura di Hollywood: è sostanza, non è orpello retorico. E non ci sono nemmeno i cattivi, quasi. I tedeschi non hanno mai un volto, una faccia. Se ne stanno lì a bombardare, a combattere con Tom Hardy nel chiuso di una cabina di un caccia, dietro le dune a stringere l’assedio. Perché Nolan va oltre il classico “show, don’t tell”, lui non li racconta i nazisti e nemmeno li mostra: te li fa sentire.
Dunkirk è – lascio la parola a i400Calci – “un film rigoroso, preciso, matematico che proprio grazie alla sua perfezione formale si permette il lusso di puntare dritto verso il metafisico”. O ancora meglio, Alonso Duralde di The Wrap: “Fenomenale da ogni punto di vista. Vuole colpire il cuore e la testa, ma, per essere sicuro, ci arriva attraverso il sistema nervoso centrale”.
Sono stato in guerra per meno di due ore, coi popcorn in mano. Ho goduto, e ho pure banalmente rimesso in linea un po’ di priorità della vita. Poi, figuratevi, con uno slancio d’ardore ho affrontato il maltempo, senza ombrello. E intimamente so che anche Tom – con la sua faccia da Tom – sarebbe orgoglioso di me.