Napoli, via Chiaia.
Un cagnolino beige al rimorchio di una signora elegantissima.
Con la sua zampetta alzata, all’angolo del Gambrinus, insensibile all’imbarazzo della stessa, sporcava il prezioso marciapiede. Per fortuna, l’animale era modesto, e i suoi bisogni non bagnavano più di mezzo metro quadro.
Da Toledo a via dei Mille, questo è il chilometro d’oro dell’acquisto a prezzo doppio, è il paese dei balocchi per pinocchietti cresciuti all’ombra degli spot televisivi. E’ quasi impossibile non comprare qualcosa, magari un libro da Feltrinelli per salvarsi la coscienza, un foulard, un dopobarba, o anche solo un cuoppo fritto a Via Roma.
Mentre osservavo questa scena, fra gente che correva, turisti estasiati, badanti ucraine e baby sitter che portavano a spasso i figli dei ricchi, alle spalle della signora si materializzava una figura conosciuta: stava distribuendo dei volantini, non riuscivo ancora a focalizzare, ma era una persona che conoscevo.
Quanto tempo fa, una vita. E’proprio lui! Lo stesso taglio di capelli, lo stesso andamento dinoccolato. Nessuna possibilità di sbagliarmi.
E’ stato un mio carissimo amico. Abbiamo fatto le scuole medie insieme. Eravamo compagni di banco e di giochi. Era un tipo particolare, sempre sorridente, ironico, mi piaceva molto studiare e passare il tempo libero con lui. E’ sempre stato un ragazzo con una fervida fantasia, leggevamo Tex e i gialli di Urania, inventavamo soggetti nuovi che vedevano nella magia di Mefisto la nostra fonte di ispirazione.
A casa sua si ascoltava De Gregori, che poi è diventato uno dei miei cantautori preferiti. Insomma, abbiamo passato degli anni bellissimi insieme. Poi ci siamo persi di vista. Lui al Garibaldi e io al Vinci. Dopo il diploma, lo incontravo qualche volta a Mezzocannone durante gli anni dell’Università. Lui spedito verso la laurea in Lettere antiche e io perso tra mille interessi che mi distraevano e ritardavano il mio status di disoccupato con pergamena. Nel mentre, la sua famiglia si era trasferita a Soccavo e ci eravamo persi di vista. Sapevo però che si era sposato, aveva due figlie e lavorava in un’azienda a Pianura.
Mentre i pensieri correvano veloci, con un gesto istintivo passavo velocemente dall’altra parte del marciapiede, dove lui non poteva scorgermi. Un gesto naturale, istintivo, vigliacco.
Sono rimasto a guardare da lontano, non solo non ho trovato il coraggio di avvicinarmi, ma ero convinto di non avere parole all’altezza, quelle che si usano quando ti senti un verme. L. fa parte di quel mondo che molti di noi non conoscono, quello che rappresenta una voragine sociale di cui non riusciamo a scorgere il fondo.
Uomini e donne come L., che vivono in un incubo che noi non immaginiamo neanche. L’incubo di una vita familiare fatta di paure, perché temi che possa verificarsi un imprevisto, di bollette che non puoi pagare – il dover spiegare ai propri figli che lavoro stai facendo – i parenti che non ti capiscono o fanno finta di niente, il non voler sentire più nessuno, perché nessuno ti può tirare fuori dal limbo in cui sei finito.
Continuava a distribuire volantini a tutti. Aveva un sorriso stanco – ma negli occhi una luce che trasudava dignità. In quel momento ho pensato che, in fondo siamo tutti un po’ in crisi perché qualcuno o qualcosa non ha mantenuto le promesse. O noi non le abbiamo mantenute.
Ci sono storie che sono come coltelli che tagliano in profondità, pensiero dopo pensiero. Ti provocano ferite profonde, ma da quelle ferite entra anche la speranza, ed è per questo che si trova la forza per andare avanti.
Un abbraccio non può guarire chi è profondamente deluso dalla vita: ma può, senza dubbio, lenire le sofferenze. Renderle sopportabili, relegarle in una soffitta e farle tacere, fosse anche solo per il tempo di un caffè.
In un attimo attraversai velocemente la strada. Appena arrivato al marciapiede, lui si girò verso di me. Per non sentirmi impotente lo abbracciai. Ciao Pasquà, che piacere rivederti – va tutto bene – mi disse.
Poi mi strinse forte a sè.