La storia della Tombola è antica. Già nel II millennio a.C., veniva praticata la divinazione attraverso i numeri e addirittura il re Salomone vi faceva ricorso con fiducia. Invece, nel II secolo d.C., in Grecia, si era diffusa l’usanza di farsi interpretare i sogni, ad opera di Artemidoro di Daldi, la cui selezione di sogni e la relativa interpretazione, raccolta nell’ “Onirocritica”, rappresenta ancora oggi una ricca risorsa, su cui si fonda tutta la scienza occidentale dei sogni.
Le origini comprovate ci portano altrove, a circa 500 anni fa, nella misteriosa cabalistica ebraica. Cabala deriva da qabbàlàh, che significa ricezione e/o tradizione: una sorta di sistema filosofico e semi-teologico di interpretazione mistica della Bibbia e dei Testi Sacri cristiani. Partendo dalla considerazione che, nella Bibbia, non c’è parola che non abbia un significato arcano e che il mondo non è altro che un insieme di simboli, i cabalisti ebraici, persiani ed egiziani fondarono una vera e propria dottrina interpretativa.
Più semplicemente, poiché Dio aveva usato la lingua ebraica per comunicare con Mosè, si diede per scontato che le 22 lettere dell’alfabeto ebraico fossero espressione delle parole divine e, quindi, meditando su di esse si potesse avere il “quadro generale” della Creazione.
Ricordando che all’epoca si numerava con le lettere, venne naturale associare a ciascuna di esse il suo corrispettivo numerologico e il gioco era fatto e, addirittura, Abraham Abulofia, studioso di Sacre Scritture, scrisse un’intera opera letteraria, utilizzando esclusivamente numeri, dopo aver effettuato molteplici combinazioni, scambiando tra loro le lettere; da allora, sempre più pensatori, sia ebrei che cristiani, si dedicarono allo studio della Cabala e persino Pico della Mirandola.
E poi, la proverbiale illimitata fantasia dei napoletani si è messa all’opera e la storia recente, senza ombra di dubbio, le attribuisce l’invenzione della Tombola. Nel periodo di Natale del 1734, nacque una diatriba tra Carlo III di Borbone, re di Napoli, ed il frate domenicano Gregorio Maria Rocco.
Il monaco sosteneva che si trattava di un gioco immorale, perché comportava la vincita di danaro attraverso ingannevoli e spregevoli modalità, ma, in realtà, la motivazione principale era che conduceva la gente a fidarsi sempre meno della Fede cristiana per superare le avversità della vita quotidiana, preferendo la gara con la Sorte.
Il re, dal canto suo, non era d’accordo, perché avrebbe dovuto rinunciare alla gabella sul gioco del Lotto, in un momento particolarmente delicato per le casse dello Stato, dissanguate dalle spese affrontate per riconquistare il Regno di Napoli all’Austria. Alla fine, giunsero ad un patto: il gioco e relativa tassa rimasero, ma era vietata l’estrazione dei numeri nelle feste natalizie, cosicché il popolo si indirizzava esclusivamente verso la preghiera e la penitenza.
“Fatta la legge, trovato l’inganno”.
I giocatori accaniti non svolsero più in pubblico le loro attività, bensì in case private e, non potendo usare un banditore ufficiale, si servivano di un contenitore di vimini, a forma conica, somigliante ad un tombolo, chiamato “‘o panariello”, contenente 90 pezzetti di legno cilindrici, numerati da uno a novanta.
Da gioco pubblico, dunque, la Tombola si era trasformata in gioco a conduzione familiare e, per non essere sorpresi in flagranza di reato, i numeri estratti non venivano pronunciati, ma svelati attraverso un’allegoria, dal significato allusivo e volgare: nacque ‘a tumbulella napoletana, nella sua veste ludica, scaramantica e rituale al tempo stesso.
Insomma, una vera e propria arte combinatoria, oltre che divinatoria, tra intrecci di senso e sfumature di accordo.
In un bel libro di qualche anno fa (Il Presepio popolare napoletano, Einaudi, 1998), Roberto De Simone trascrive una tombolata tenuta nei Quartieri Spagnoli, intorno alla fine degli anni ‘70. Qui, a condurre il gioco era un femminiello che nomina se stesso indifferentemente al femminile e al maschile, e trasforma l’estrazione dei numeri in un evento teatrale, popolaresco, scurrile, erotico, ironico e rituale al tempo stesso. Il conduttore del gioco ha un’interpretazione ‘autentica’ per ogni numero estratto, ma anche, e qui sta l’abilità affabulatoria e spettacolare, un riferimento preciso ai presenti in sala e quindi ogni estrazione diventa elemento riconoscibile e godibile di esperienza ‘magica’ comune.
“Filume’, e nun ‘a vuo’ ferni’, cu sti ‘nciuce! Cinquantanove”.
“Sisina è tutta scema. Vintitré”.
“Jammo Cunce’ e nun t’allamenta’. Sissanta”.
E alla fine, a conclusione del ‘rito’:
“‘O panaro è vacante
chi ‘o tene piccolo e chi ‘o tene grande.
Tombola e tiritombola, ‘onna Cucù!
Cca nun ce ne sta cchiù.
Uh! Maronna!”.
Ci sono sempre stati svariati tentativi di applicare alla cronaca attuale la Smorfia napoletana, con decodifiche quanto mai azzeccate: i topi (11) e i pidocchi (87) che sguazzano in mezzo alla spazzatura; amministratori incapaci che non sanno o vogliono controllare la situazione (71, l’ommo ‘e mmerda), mentre la camorra (79, o’ mariuolo) si arricchisce alle spalle della gente. Il tutto mentre la città diventa, sub specie metaforica, sempre più un gigantesco orinale (27).
11, 27, 71, 79, 87, una bella cinquina, naturalmente sulla ruota di Napoli…