di Alfredo Carosella
Non si può tacere di fronte alla scia di sangue che uomini senza nulla di umano versano ogni giorno in varie parti del mondo. Assistiamo sgomenti a storie nelle quali si uccide per motivi che possono sembrare diversi, e invece sono riconducibili tutti a un’unica ragione: il carnefice sente che non c’è altra soluzione se non quella di infliggere la morte alla sua vittima. È inaccettabile, senza eccezione alcuna.
Definire tali delitti – come avviene in alcuni casi – passionali o d’amore è un grave errore, forse dovuto al fatto che nel nostro Paese il “delitto d’onore” è stato abolito appena quaranta anni fa: il 5 agosto 1981, insieme al “matrimonio riparatore” e all’”abbandono di un neonato per causa d’onore”.
Alice vince Sanremo con “Per Elisa”, Spadolini è il Presidente del Consiglio, Pertini è il Presidente della Repubblica, Giovanni Paolo II subisce l’attentato in Piazza San Pietro: sembra ieri. Invece è passato un tempo così lungo da trasformare il nostro modo di stare al mondo, con l’avvento dei computer, internet, i social network, gli smartphone. Non abbastanza, evidentemente, per cambiare il cuore di alcuni appartenenti al genere umano maschile.
Ogni anno in Italia superiamo le 100 vittime di femminicidio. L’ultima il 20 ottobre: Elena Casanova, operaia quarantanovenne, uccisa a martellate dal suo ex che la perseguitava da tempo con messaggi e scritte sui muri. Ha sfondato il finestrino della sua auto e l’ha trascinata fuori, dove l’ha colpita più volte. Lascia una figlia di diciassette anni.
Anche nel caso in cui non si arrivi al femminicidio, c’è da chiedersi perché una persona debba essere privata della propria libertà, subire minacce continue e vivere nel terrore senza che nessuno faccia nulla.
Nel frattempo, dall’Afghanistan è giunta la macabra notizia della decapitazione di un’atleta della pallavolo, colpevole di aver giocato senza il velo. L’atroce esecuzione sarebbe stata commessa diverse settimane fa ma se ne è avuta notizia soltanto adesso, anche perché in Afghanistan i giornalisti vengono picchiati e cacciati, proprio per evitare scomodi testimoni. La vittima si chiamava Mahjubin Hakimi, poliziotta, giocava nel Kabul Municipality Volleyball Club, aveva solo diciotto anni. Come si può arrivare a tanto? E perché, se si è convinti che si sta facendo la cosa giusta, non si vogliono testimoni? Non certo per la vergogna, cioè per la consapevolezza penosa della gravità di un’azione commessa, che può provare solo un essere umano.
A Ciudad Juarez, città del nord del Messico molte donne scompaiono nel nulla, vengono rapite, stuprate, uccise. Secondo Amnesty International nel 2005 sono state uccise 370 donne tra Juarez e lo Stato di Chihuahua. Proprio lì è stato coniato il termine “femminicidio” e, nel 2009, l’artista messicana Elina Chauvet, dopo l’uccisione di sua sorella ad opera del marito, fece la prima installazione di scarpe rosse: “Zapatos Rojos”, che poi si è diffusa anche in altri paesi, tra i quali l’Italia.
Nel 1999 le Nazioni Unite hanno istituito la “Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne”, che si celebra il 25 novembre.
Nel 2015 è nata la campagna “Non una di meno”, che dall’Argentina si è propagata fino in Europa, per chiedere di fermare la violenza contro le donne attraverso un cambiamento politico e sociale; sono stati proclamati scioperi internazionali delle donne, con adesioni da oltre settanta paesi; in Italia è stato istituito il numero gratuito 1522, antiviolenza e stalking, un servizio pubblico attivo 24 ore su 24.
Tante sono le iniziative volte a sensibilizzare l’opinione pubblica e a chiedere di fermare una strage che appare inarrestabile e sembra tutto inutile, ma è nostro dovere continuare a gridare: adesso basta!